Quelli contro Brexit
Anche se la sensazione è che l'uscita dalla UE sia ormai inarrestabile, c'è qualcuno nel Regno Unito che lavora per invertire la rotta e arrivare magari a un nuovo referendum
Con qualche inciampo, il lungo iter che dovrebbe portare il Regno Unito a uscire dall’Unione Europea sta lentamente iniziando: la decisione dell’Alta Corte che ha imposto al governo britannico di chiedere un voto del parlamento prima di iniziare i negoziati con l’Unione Europea, e i segnali sui possibili danni economici che che causerà Brexit, non sembrano aver scalfito la percezione della sua ineluttabilità e la sensazione che in pochi nel Regno Unito credano a una possibile marcia indietro. Negli ultimi giorni, tuttavia, i media si sono occupati di alcuni gruppi composti da ex ministri e altre importanti personalità del paese che starebbero lavorando a una campagna per fermare Brexit: una di queste organizzazioni fa riferimento ad Alan Milburn, ex ministro della Sanità laburista, e sarebbe finanziata anche dal ricchissimo fondatore del gruppo Virgin, Richard Branson; l’altro movimento fa invece capo a Tony Blair, ex primo ministro laburista.
Oggi la principale organizzazione filo-Europa attiva nel Regno Unito si chiama “Open Britain” e non vuole esplicitamente contrastare l’uscita del paese dall’Unione Europea, ma lavorare per una “Soft Brexit”, cioè perché il Regno Unito esca dalle istituzioni politiche europee ma rimanga in qualche modo all’interno del “mercato unico”, la stessa situazione in cui si trovano Norvegia e Svizzera, insomma. Non è una cosa che piace molto ai “puristi” di Brexit – Nigel Farage, per esempio, ha sempre parlato della necessità di uscire anche dal mercato unico – ma è una posizione che potrebbe trovare qualche consenso e possibilità di successo tra i più moderati del Partito Conservatore e nella sinistra, perché mitigherebbe molto gli effetti negativi di Brexit (quindi anche i suoi presunti vantaggi per il Regno Unito). Gli altri paesi dell’UE però si sono detti più volte radicalmente contrari a questa possibilità, sostenendo che la libera circolazione delle merci e quella delle persone non si possono separare.
Il Guardian spiega invece che l’intento dell’organizzazione finanziata da Branson sarebbe innanzitutto riunire i gruppi europeisti più eterogenei – anche al di fuori del paese – a sostegno di una campagna per ribaltare la decisione presa dai cittadini britannici con il referendum di giugno. L’Indipendent dice anche che l’obiettivo dell’organizzazione – che non ha ancora un nome – sarebbe ottenere almeno una seconda votazione sulle modalità di Brexit al termine dei due anni di negoziati previsti tra il Regno Unito e l’Unione Europea – quando saranno più chiari i termini dell’uscita – o comunque fare pressione sull’opinione pubblica per dare maggior peso a chi avesse avuto un ripensamento. Un recente sondaggio di BMG condotto all’inizio di novembre mostra che il 51 per cento degli intervistati vorrebbe che il Regno Unito restasse nell’Unione Europea, mentre il 49 per cento sostiene ancora il suo abbandono (ma due punti sono ampiamente dentro il margine di errore, ed è solo un sondaggio). La campagna dovrebbe comunque cominciare dopo che il governo guidato dalla prima ministra Theresa May avrà preso decisioni concrete sul percorso da seguire, e quindi dopo il voto con cui il parlamento avrà stabilito i termini su cui il governo potrà iniziare le trattative.
L’Independent cita anche una email da cui si capisce che l’iniziativa finanziata da Branson può già contare su impegni finanziari stimati in un milione di sterline. L’email letta dal giornale è stata scritta da Alan Milburn, ex politico laburista molto vicino a Blair: indica che la campagna è in preparazione da mesi e spiega che sono già stati fatti «progressi sostanziali», compresa l’individuazione di «un eccellente potenziale amministratore delegato». Si dice che le discussioni principali hanno attualmente a che fare con il finanziamento e la struttura giuridica della nuova organizzazione, che Branson avrebbe messo a disposizione anche degli spazi per gli uffici, che sono stati contattati importanti parlamentari e politici tra cui l’ex vice primo ministro Nick Clegg, ma anche alcuni personaggi al di fuori della politica, come Bob Geldof.
L’altra organizzazione che dovrebbe cominciare il proprio lavoro il prossimo anno farebbe invece riferimento all’ex primo ministro Tony Blair e nascerebbe con l’intenzione, come è stato detto, di rappresentare il 48 per cento degli elettori che hanno votato per rimanere nell’Unione Europea. Il movimento di Blair non vorrebbe fare campagna anti-Brexit e non si concentrerebbe esclusivamente sul Regno Unito: l’obiettivo iniziale sarebbe capire i motivi che hanno portato a Brexit e al grande indebolimento del centrosinistra europeista come forza politica, anche fuori dal paese. I critici sostengono che Blair rappresenti esattamente la classe politica che ha contribuito a far perdere la fiducia degli elettori e che quindi il suo coinvolgimento sarebbe controproducente; altri invece guardano con curiosità all’iniziativa sostenendo che prima e dopo Blair il Partito Laburista non abbia fatto altro che perdere, che ci sia un vuoto nella politica britannica e che milioni di persone europeiste e di centrosinistra oggi non abbiano più alcun reale riferimento politico.
Gli obiettivi della nuova “cosa” di Blair non sono ancora del tutto espliciti, ma parlando di Brexit in un’intervista di fine ottobre alla BBC Blair ha detto che il Regno Unito non dovrebbe escludere la possibilità di votare in un nuovo referendum: «Se diventa evidente che si sta trattando di una questione con implicazioni gravi e che gli elettori potrebbero decidere di non volere fino in fondo, ci deve essere un modo – o attraverso il parlamento o attraverso un’elezione o attraverso un referendum – per far esprimere ai cittadini la propria opinione».
Non è chiaro come queste iniziative influenzeranno la procedura o la modalità di uscita del Regno Unito ed è difficile prevedere oggi anche come andranno le trattative. May ha detto che invocherà l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello che formalmente fa iniziare le procedure di uscita, entro il prossimo marzo. Giovedì 3 novembre l’Alta Corte di Giustizia del Regno Unito ha però stabilito che, in base alla costituzione britannica, il governo non potrà appellarsi all’articolo 50 senza prima passare da un voto del parlamento che confermi o meno la volontà espressa dai cittadini con il referendum, che tecnicamente aveva solo valore consultivo. Il governo britannico ha detto che farà appello contro la decisione dell’Alta Corte di Giustizia e una decisione definitiva dovrebbe arrivare prima di Natale, ma intanto sta preparando una bozza di legge. Una volta notificata formalmente al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di lasciare la UE, inizieranno i negoziati per definire le modalità del recesso. L’articolo 50 prevede che le trattative si concludano entro due anni: se questo non dovesse succedere, l’appartenenza dello Stato membro alla UE decadrebbe automaticamente, a meno che il Consiglio europeo e gli altri Stati membri non decidano insieme di estendere il periodo delle negoziazioni.