Le notizie false sono un problema di incentivi
Ai giornali non conviene puntare alla qualità dei contenuti quanto alla loro diffusione e non è solo colpa dei social network, scrive Leonid Bershidsky su Bloomberg
di Leonid Bershidsky – Bloomberg
Nello scaricabarile iniziato dopo le elezioni presidenziali statunitensi i social network – Facebook su tutti – sono stati accusati di aver favorito la diffusione di notizie false. Il New York Times, Vox, Inc. e molti altri siti meno conosciuti hanno tutti pubblicato degli articoli critici verso il rifiuto da parte del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg dell’idea che le bufale circolate sui social network abbiano influenzato il risultato elettorale. La questione, però, è assai più complicata di così. È possible che la tecnologia abbia raggiunto il contributo massimo che può dare all’informazione e che il settore delle news sia arrivato al limite delle sinergie possibili con la tecnologia. Allo stesso tempo la fiducia delle persone nei confronti di quelli che collettivamente – ed erroneamente – definiscono come i “media” è ai minimi termini. Tutti e tre questi problemi, interconnessi tra loro, possono essere risolti, ma per farlo sarebbero necessari contributi tradizionali come capacità giornalistica, coraggio editoriale e imprenditoriale.
Le notizie false non si diffondono per colpa degli algoritmi di Facebook che cercano di dare all’utente quello che Facebook crede voglia vedere, ma per via di un fondamentale scollamento tra le definizioni di “coinvolgimento” nel settore pubblicitario e nelle redazioni. Per Facebook e Twitter il coinvolgimento sono i “mi piace” e le condivisioni: sono le interazioni che vendono agli inserzionisti, e nelle loro sezioni notizie questi siti mettono in evidenza i post che generano un alto coinvolgimento da parte degli utenti. Per un giornalista, invece, il dato importante è il numero di persone che hanno letto o guardato un pezzo per intero, facendosene coinvolgere intellettualmente. Un lettore “coinvolto” è una persona che, dopo aver letto questo articolo, reagirà in modo intelligente con un commento online o scrivendomi una email con le sue riflessioni.
Il problema è che le persone che mettono “mi piace” e condividono i contenuti spesso non vanno oltre il titolo. Secondo un recente studio condotto da Maksym Gabielkov e dai suoi collaboratori il 59 per cento dei link che girano su Twitter non vengono mai aperti. Un brillante esperimento svolto su Facebook nel 2014 da National Public Radio – un network di radio pubbliche americano – ha dimostrato che le persone spesso commentano dopo aver letto soltanto il titolo di un articolo. Un altro studio recente ha scoperto che solo un giovane su cinque va oltre il titolo (e ho il sospetto che gli altri quatto non siano stati del tutto sinceri con i ricercatori).
Facebook, Google, Twitter e i siti macedoni che hanno prodotto bufale pro-Trump (o meglio, titoli, visto che il resto dell’articolo non conta) in quantità industriali per ottenere traffico e guadagnare qualche euro attraverso le pubblicità di Google vogliono tutti mantenere le cose come stanno. A loro non interessa se le persone leggono quello che condividono o ripostano, perché non è così che funzionano i loro incentivi.
I direttori di giornali, invece, odiano questa impostazione. Al posto di assumere giornalisti scrupolosi e precisi ed editorialisti beninformati potrebbero semplicemente appaltare la maggior parte del lavoro a dei robot, per dedicarsi solo a scrivere titoli accattivanti. Una cosa del genere ucciderebbe la professione del giornalista e lascerebbe il pubblico tristemente disinformato. La simbiosi commerciale tra attività editoriali e piattaforme tecnologiche crea una serie di compromessi scomodi. I giornali scrivono titoli sensazionalistici che non sempre corrispondono all’articolo che li segue e sviluppano strategie per i social network con l’obiettivo di diffondere il più possibile questi titoli, sapendo bene che la maggioranza delle persone che interagiranno con quel contenuto non leggerà le storie riportate nei link. Le società tecnologiche fingono di voler controllare le bufale e, nel farlo, affinano la loro capacità di bloccare contenuti sulla base di determinate parole. La recente decisione da parte di Twitter di permettere agli utenti di bloccare gli “abusi” filtrando termini specifici rientra nella stessa categoria.
Occuparsi seriamente del rilevamento automatico di notizie false richiede un grande contributo umano. In sostanza – come evidenziato da Victoria Rubin e dai suoi collaboratori in uno studio nel 2015 – ci sarebbe bisogno di costruire un set di dati che raccolga diversi tipi di notizie false per addestrare i sistemi che elaborano il linguaggio naturale. Anche se venisse mai realizzato, io non mi fiderei di un sistema di rilevamento delle bufale. I giornalisti, raccoglitori e verificatori di notizie professionistici, potrebbero non essere sempre d’accordo su una serie di fatti, ma almeno possono discuterne. L’intelligenza artificiale è invece una scatola nera e se le viene permesso di decidere quali notizie sono false e quali sono “reali” non c’è modo di verificare quelle decisioni senza un dettagliato lavoro di analisi a ritroso.
Il lavoro di fact-checking è stato usato come arma e screditato durante la campagna elettorale per il referendum su Brexit nel Regno Unito e le elezioni americane: gli sforzi per analizzare la qualità delle argomentazioni sono arrivati quasi solo da una parte. Inoltre, quella che sarebbe dovuta essere una copertura giornalistica basata sui fatti ha lasciato molte persone impreparate alle sorprese del voto. Il confitto essenzialmente economico intorno al significato del coinvolgimento sta distruggendo i valori proposti dai media, che hanno smesso di essere una fonte di informazione di cui le persone si fidano. Quest’anno solo il 32 per cento degli americani, di cui il 14 per cento Repubblicani, ha detto di avere una «grande» o anche solo una «discreta» fiducia nei media, rispetto al 54 e 52 per cento nel 1998. Esiste una sparuta minoranza di persone disposte a pagare per avere un’informazione veritiera e messa insieme in modo scrupoloso. Quelli che invece non pagano devono aspettarsi di ricevere notizie senza un filtro altrettanto efficace. Per natura è solo la propaganda a essere gratuita, perché in quel caso sono i clienti, e non i contenuti, a essere l’oggetto dello scambio commerciale.
Se le pubblicazioni certe della qualità della loro informazione fossero più risolute nell’introdurre sistemi di pagamento per i loro contenuti, senza falle o eccezioni pensate per aumentarne la “portata”, il “coinvolgimento” e i ricavi pubblicitari, finirebbero per avere meno soldi e un pubblico minore. Sarebbero anche costrette a dare priorità ai contenuti, una cosa che sospetto molti lettori accoglierebbero con favore. I social network smetterebbero di essere un canale importante per i contenuti di qualità: i link verrebbero condivisi solo tra abbonati. I direttori dei giornali avrebbero a che fare con un pubblico molto più reattivo e coinvolto. Non credo che tutto questo succederà.
Forse i sempre più redditizi giganti tecnologici vorranno dimostrare di avere una coscienza civile ripensando al loro modello di business in relazione all’informazione. Agli inserzionisti non dovrebbero essere vendute ingannevoli “metriche di coinvolgimento”: a generare reddito dovrebbero essere solo le storie lette per intero. In questo modo si eliminerebbe la maggior parte delle notizie false e dei titoli sensazionalistici. Forse si potrebbe elaborare un qualche tipo di combinazione tra questi due approcci con un dialogo tra il settore dell’informazione e quello tecnologico. Nonostante io sia titubante nel suggerire un’ingerenza a livello normativo nelle questioni relative alla libertà di espressione, i governi potrebbero contribuire a regolamentare il settore pubblicitario in modo da allineare gli interessi commerciali a quelli editoriali. Che ci sia bisogno di fare qualcosa è chiaro: le notizie accurate e reali sono sull’orlo dell’estinzione, e non è solo colpa dei social network.
© 2016 – Bloomberg