Jack London † un secolo fa
Inventò una nuova figura di scrittore, quello che vive in prima persona la vita avventurosa che poi racconta nei romanzi, come nel suo più famoso, "Zanna Bianca"
di Giacomo Papi – @giacomopapi
Cent’anni fa morì Jack London. Era il 22 novembre 1916, e lui aveva quarant’anni. Le ultime cose che disse alla moglie la notte prima di morire furono: «Grazie a Dio tu non hai paura di niente».
La vita di London, più ancora dei suoi libri, avrebbe fatto da modello per molti scrittori a venire. London fu una delle prime star della letteratura mondiale, e per questo – come il poeta francese Baudelaire prima di lui, ma in modo completamente diverso – può essere considerato uno dei primi scrittori moderni. Fu tra i primi a costruire, insieme alla propria opera – soprattutto i romanzi Zanna bianca, Il richiamo della foresta e Martin Eden – anche un personaggio in grado di diffonderla. Con London nacque, cioè, una nuova figura di scrittore: che vive in prima persona e fino in fondo la vita avventurosa che mette in scena nei suoi romanzi. Prima di London, i resoconti di viaggio erano opera di esploratori in pantaloncini color khaki, baffi a manubrio e pince-nez, finanziati dalla Royal Society di Londra, come quelli presi in giro da Charles Dickens nel Circolo Pickwick, oppure erano memoriali di testimoni di vicende mirabolanti. Ma non erano letteratura. Soltanto dopo London – con la parziale eccezione di Robert Louis Stevenson – letteratura e avventura si incarnarono nel personaggio dello scrittore. E crollò l’opposizione antica tra vita attiva e vita contemplativa.
Jack London in posa per il pittore Xavier Martinez nel suo ranch nella Sonoma County in California. (California State Parks)
John Griffith Chaney London – Jack è un diminutivo di John – era nato a San Francisco, in California, il 12 gennaio 1876. Sua madre Flora Wellman era la figlia di un ricco costruttore di canali dell’Ohio e discendeva da uno dei primi puritani a sbarcare in Massachusetts. Quando sua madre morì e il padre si risposò, andò in California, e si mantenne dando lezioni di musica. Era anche una spiritualista convinta: sosteneva di essere il tramite terreno dello spirito di un capo indiano. È probabile – questo almeno sostengono alcune biografie – che il padre di Jack London sia stato William Henry Chaney, un astrologo ambulante irlandese, che dopo avere cercato di convincere Flora ad abortire se ne andò da San Francisco, abbandonando il bambino e la madre, che per questo tentò il suicidio. Fino all’età di 21 anni, London pensò invece di essere figlio di John London, un reduce della Guerra civile americana, muratore e in seguito custode, con cui la madre si era risposata già alla fine del 1876 e che aveva due figlie da un precedente matrimonio. Dopo avere letto su un giornale un resoconto del tentativo di suicidio di sua madre, London scrisse una lettera a Chaney, intanto a Chicago, che gli rispose di essere impotente e che al tempo del suo concepimento la madre aveva molte altre relazioni.
Le altre figure importanti dell’infanzia di London furono due: Daphne Virginia Prentiss, detta Jenni, una ex schiava nera che gli fece da balia e con cui rimase in contatto per tutta la vita, e Ina Coolbright, bibliotecario poeta della Oakland Public Library che per primo lo avvicinò alla lettura. London era un autodidatta. Frequentò le scuole in modo saltuario, e incominciò a lavorare a 13 anni: fece lo strillone dei giornali, il raccoglitore di birilli in una sala da bowling, il pescatore di ostriche di frodo (si comprò perfino una barca, la Razzle Dazzle, facendosi prestare i soldi dalla sua balia), lavorò in una fabbrica di conserve, si imbarcò come marinaio su una goletta che andò in Giappone, entrò nella Kelly’s Army, una banda di ragazzini, e nel 1893, a 17 anni, fu arrestato per vagabondaggio. Passò un mese in galera a Buffalo. Fu uno dei pochi – probabilmente – a cui il carcere sia servito perché, tornato in California, si iscrisse alla Oakland High School e, dopo un’estate passata a studiare come un forsennato, riuscì a farsi ammettere alla University of California di Berkeley, la località vicino a San Francisco in cui, quasi un secolo dopo, sarebbe iniziato il ’68. Fino a 19 anni non aveva mai usato uno spazzolino da denti. La sua vita universitaria non durò a lungo. Fu arrestato di nuovo per avere fatto un comizio senza il permesso del sindaco, e trovò lavoro in una lavanderia, tentando disperatamente di scrivere con una macchina presa a prestito che aveva soltanto le lettere maiuscole. Il richiamo della vita libera e selvaggia – il titolo originale del Richiamo della foresta è The call of the wild – e dell’alcol lo resero un ospite fisso dello “Heinold’s First and Last Chance Saloon”, un locale frequentato da marinai, da cui trasse altro materiale per i racconti che stava incominciando a scrivere e pubblicare.
London non sapeva inventare: «L’espressione è molto più facile dell’invenzione», scrisse in una lettera. Per tutta la vita, ebbe bisogno di caricare la propria scrittura di esperienze reali o tratte dalla cronaca (e per questo fu accusato di plagio), seguendo uno schema fisso: prima vivere, poi scrivere, poi tornare a vivere per scrivere ancora. Typhoon off the Coast of Japan – il primo racconto che riuscì a pubblicare, già durante l’anno del liceo – era un resoconto del viaggio in Giappone. Dagli anni allo Heinold’s First and Las Chance Saloon ricavò la figura di Wolf Larsen, il protagonista di The Sea-Wolf – Il lupo dei mari e la maggior parte del materiale che sarebbe confluito in John Barleycorn, successivo romanzo autobiografico sull’alcolismo. Ma anche quella vena si asciugò. Nel 1897 a 21 anni London partì per cercare l’oro in Klondike, insieme al marito di sua sorella. Tornò un anno più tardi con 4 dollari e 60 cents in tasca, ma senza quattro denti davanti in bocca. Gli erano caduti a causa del rigonfiamento delle gengive provocato dallo scorbuto: «Dal Klondike non ho riportato nient’altro che lo scorbuto», disse. In realtà portò con sé anche le storie e gli ambienti che lo avrebbero reso ricco e famoso, oltre alla convinzione che il lavoro fosse una trappola e che scrivere per lui fosse l’unico modo di fare soldi.
Klondike, Alaska, 1897. Un cercatore d’oro in cui alcuni hanno riconosciuto Jack London.
Si mise a scrivere e leggere, anche diciannove ore al giorno, con la determinazione di farsi pubblicare. Era il momento giusto perché il mercato chiedeva storie – si era formato un pubblico di lettori che sapevano e volevano leggere – e le nuove tecnologie di stampa permettevano alte tirature a basso prezzo. Il processo che stava portando alla nascita dei dime-novels, che avrebbero originato i libri tascabili, si affermava contemporaneamente al successo dei magazine di fumetti o di racconti d’amore e di avventura. London scrisse a tutti i giornali possibili. Mandò racconti realistici e altri di fantascienza. L’Atlantic Monthly gli propose di cambiare il suo nome in John London, che secondo il redattore Bliss Perry sarebbe suonato meglio «to literary purposes», ma Jack rifiutò. Il primo racconto dai tempi del college – To the man on the trail – lo comprò l’Overland Monthly per 5 dollari, e London ne fu così sconfortato che pensò di rinunciare alla scrittura. Per fortuna – scrisse – fu «letterariamente e letteralmente salvato» da altri magazine – The Black Cat e, ancora, l’Atlantic Monthly – che pubblicarono A Thousand Deaths e An Odissey to the North, pagandoli 40 dollari ciascuno.
Nel giro di cinque anni incominciò a guadagnare come non aveva mai fatto prima. Nel 1900 uscì il suo primo libro, la raccolta A Son of the Wolf – Il figlio del lupo, pubblicata da Houghton Mifflin. Nel 1903 arrivò il primo vero successo: The Call of the Wild, Il richiamo della foresta, che uscì a puntate sull’Evening Post (750 dollari) e fu comprato per 2 mila (che sarebbero circa 70 mila oggi) dall’editore Macmillan per pubblicarlo in forma di libro. La storia del cane Buck, rapito dalla sua tranquilla vita borghese in California, per tirare le slitte dei cercatori d’oro e poi diventare un cane da combattimento, oltre che dalle esperienze di London in Klondike, era ispirata – e in parte plagiata – dal romanzo My dogs in the Northland di Egerton Ryerson Young. Come detto, Jack London non sapeva inventare.
Le prime edizioni di Zanna bianca (1906), Il richiamo della foresta (1903) e John Barleycorn (1913)
L’epica di Jack London è costruita intorno a molte contraddizioni. Al tempo in cui incominciò a desiderare di diventare scrittore, era socialista. Scrisse articoli in favore delle lotte operaie e degli oppressi, arrivando a giustificare atti di terrorismo, ma la sua versione del socialismo, oltre che radicalmente individualistica, vedeva nella lotta di classe una legge di natura, la lotta per la vita dove a prevalere è sempre il più forte. Il darwinismo sociale, divulgato negli Usa dal filosofo Herbert Spencer, sanciva nel predominio del più forte, più che nella difesa del debole, la regola a cui tutto si piega. London amava la boxe e scrisse contro il razzismo, ma anche sulla differenza naturale, e ineliminabile, tra le varie razze umane. Parlò di «pericolo giallo» e scrisse contro la naturale indolenza degli immigrati italiani che, una volta diventato ricco, aveva assunto nel suo ranch. Ingaggiò battaglie contro il maltrattamento degli animali nei circhi, ma fu ammaliato e attratto dalle lotte tra i cani. Scrisse di lui George Orwell: «Ma per temperamento era molto diverso dalla maggior parte dei marxisti. Con il suo amore per la violenza e la forza fisica, la sua fede nella “naturale aristocrazia”, la venerazione per gli animali e l’esaltazione del primitivo, aveva in sé quella che si potrebbe a buon ragione chiamare una tendenza fascista».
In posa da boxeur nel 1904.
L’esaltazione implicita della forza e della violenza si sovrapponeva, fino a cancellarlo, all’ideale di uguaglianza del socialismo. Raccontando la povertà diventò ricco, descrivendo gli ultimi acquistò fama e celebrò la terribile bellezza della natura – sempre più lontana dalla vita civilizzata degli esseri umani – grazie alle nuove tecnologie industriali di stampa, per un pubblico di lettori che la natura l’avevano appena abbandonato per la città. La figura di Jack London realizzò, cioè, una sintesi tra due dei più famosi scrittori americani che l’avevano preceduto: la lode intimistica della «vita nei boschi» di David Henry Thoreau e l’esaltazione della libertà e dell’avventura di Mark Twain. Nel 1904 seguì la guerra russo giapponese come corrispondente di guerra per il San Francisco Examiner di William Randolph Hearst, uno dei più importanti editori americani. Durante la guerra fu anche arrestato, tre volte, e per liberarlo intervenne anche il presidente Theodore Roosvelt.
Il personaggio Jack London nacque nel primo decennio del Novecento, nel periodo in cui finalmente il Jack London reale ebbe successo, diventò famosissimo, «lo scrittore più pagato d’America», frequentò altri intellettuali e scrittori bohémien – su tutti il poeta George Sterling (ma nella sua cerchia c’era anche Ambrose Bierce) – si sposò con Bessie Maddern, una donna che non amava ma con cui fece due figlie, si risposò con Charmian Kittredge, comprò un ranch in cui buttò un mucchio di soldi, ripartì, sparì per mesi alle Hawaii, perse altri soldi, scrisse altri articoli, libri, racconti, guadagnando moltissimo, bevendo moltissimo, trascinando un corpo sempre più malandato, a causa della vita che aveva vissuto e del temperamento che gliel’aveva fatta vivere. Nel 1913, tre anni prima della sua morte, guadagnava 10 mila dollari al mese, ma ne spendeva molti di più. I poveri – scrisse – «non si tolgono mai di dosso la fame». La povertà estrema – cioè la condizione di chi deve lottare per mangiare – è il combustibile a cui le sue storie attingono e che le sue storie cercano: il modo per mostrare la condizione umana per quello che è davvero, sotto la crosta della civiltà.
Morì il 22 novembre 1916 devastato da una malattia renale, da gotta e piorrea, dalla dieta di pesce e anatra cruda e dagli oppiacei che gli aveva prescritto il suo medico. Essendo considerato un eroe, era più bello immaginare che avesse scelto da solo come morire, esattamente come aveva scelto di vivere. Ma l’ipotesi del suicidio dovuto a una dose eccessiva di morfina è stata scartata dagli storici. Sicuramente era ateo, e chiese di essere sepolto nella terra del suo ranch, senza cerimonie o lapidi. In una lettera del 1909 aveva scritto: «Preferirei essere cenere che polvere».
Esistono almeno due tipi di scrittori: quelli che vivono attraverso i libri che hanno scritto e quelli i cui libri sono illuminati dalla vita che hanno vissuto. Jack London appartiene al secondo tipo. La sua vera opera, forse, è un’autobiografia, anche se o forse perché non ne scrisse mai una: la edificò a pezzi, mischiando i fatti all’immaginazione, episodi vissuti in prima persona ad altri visti o ascoltati, agli articoli dei giornali e alle storie di altri libri. Il suo eroe più riuscito – più di Zanna bianca, Buck e Wolf Larsen – è sé stesso. Tra i precursori di questo tipo letterario ci sono Giacomo Casanova e Lord Byron, tra gli epigoni si possono citare, tra gli altri, Ernest Hemingway, Jack Kerouac e Oriana Fallaci – che non a caso scrisse una prefazione all’edizione BUR del Richiamo della foresta, parlandone come del libro che le aveva cambiato la vita – o, più recentemente, Karl Ove Knausgård e Roberto Saviano.