Il “mansplaining”, spiegato
Da qualche anno si usa questa parola per indicare le spiegazioni non richieste e paternalistiche fatte da uomini a donne che non ne hanno bisogno
Per quattro giorni il più grande sindacato svedese per impiegati, Unionen, ha tenuto aperta una linea telefonica gratuita per segnalare casi di “mansplaining”. Con questa parola si indica da qualche anno l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero. L’iniziativa di Unionen, andata avanti dal 14 al 18 novembre, è stata pensata sia per permettere alle persone di sfogarsi, raccontando a qualcuno la propria frustrazione per aver subito una spiegazione non richiesta, sia per suggerire alle persone la reazione più adatta da avere verso chi si comporta da “mansplainer”. L’idea di questa campagna è nata perché molti membri del sindacato si erano lamentati per aver subito mansplaining – che in svedese si dice “manövern” traslando la parola direttamente dall’inglese – sul posto di lavoro.
La metà delle chiamate fatte al numero provenivano da uomini, per esempio padri interessati a spiegare ai propri figli cosa fosse il mansplaining, come rispondere a chi lo fa e come non esserne responsabili a propria volta. Il valore dell’iniziativa è stato molto discusso sui social network e ci sono state anche critiche, ovviamente: alcuni uomini hanno interpretato la campagna come un attacco generale nei loro confronti, come spesso capita quando si parla di uguaglianza di genere e di casi in cui la discriminazione nei confronti delle donne esiste ancora.
La parola “mansplaining” è stata coniata nel 2008 nel corso di una discussione online originata dalla pubblicazione sul Los Angeles Times di un articolo della scrittrice e giornalista Rebecca Solnit intitolato Men who explain things, cioè “Uomini che spiegano cose”. L’articolo di Solnit, un pezzo di opinione, racconta di un caso notevole di mansplaining subito dall’autrice. Solnit si trovava a una festa e il suo interlocutore era la persona che l’aveva organizzata, un ricco pubblicitario. Lui le disse: «Ho saputo che hai scritto un paio di libri». Lei, che allora, nel 2003, ne aveva scritti sei, rispose: «Ne ho scritti diversi, in verità». Poi lui le chiese di cosa parlavano – «nel modo in cui incoraggi il figlio di un tuo amico che ha 7 anni a parlare di come suona il flauto» – e lei gli rispose citando River of Shadows, il suo libro sul fotografo Eadweard Muybridge, che all’epoca era uscito da poco. Sentendo il nome il nome di Muybridge, l’uomo la interruppe per chiederle se aveva sentito parlare dell’importante libro su di lui che era appena stato pubblicato: senza saperlo stava citando proprio il libro di Solnit – che non aveva letto – non potendo pensare che lei ne fosse l’autrice. In generale a molte donne è capitata una situazione simile, oppure una in cui si sono ricevute spiegazioni non richieste. Riceverle può essere umiliante, dato che è una cosa che fa sentire che il proprio valore non è riconosciuto e la propria intelligenza non è stimata.
La parola “mansplaining” è formata da “man”, cioè “uomo”, e il verbo “explain”, che significa “spiegare”. La scrittrice Violetta Bellocchio ha proposto come traduzione italiana “spiegazione virile” e l’espressione “Amico Spiegazione” per gli uomini che fanno mansplaining, ma né queste formulazioni né altre hanno finora avuto successo. Ovviamente non sono sempre e solo gli uomini a fare mansplaining nei confronti delle donne: per questo negli Stati Uniti si è cominciato a parlare anche di “whitesplaining“, quando un bianco, uomo o donna che sia, spiega qualcosa a un nero con lo stesso atteggiamento paternalistico e arrogante, anche se velato da una certa condiscendenza. Capita anche che il comportamento da mansplainer sia tenuto da persone di una certa età verso persone più giovani, anche colleghi di lavoro.
Come è cresciuto nel tempo l’uso della parola “mansplaining” nel mondo secondo Google Trends:
Uno dei casi più recenti per cui sui social network si è usato molto il termine “mansplaining” è stato lo scorso settembre, quando su Twitter un uomo di nome Casey O’Quin – che poi ha cancellato il proprio profilo, dopo aver ricevuto numerose critiche – ha spiegato un principio fisico all’astronauta americana Jessica Meir. Lei aveva pubblicato un video girato durante una simulazione delle condizioni dello spazio e aveva scritto: «Per la prima volta sono andata a più di 19mila metri di altezza, la zona equivalente allo spazio, dove l’acqua bolle spontaneamente! Fortunatamente ho la tuta!». Casey O’Quin le aveva risposto scrivendo: «Non direi spontaneamente. La pressione nella stanza è sotto la pressione di vapore dell’acqua a temperatura ambiente. Semplice termodinamica».
È sul luogo di lavoro che il mansplaining può diventare un vero problema, soprattutto se le donne lo subiscono da colleghi e superiori: in particolare se il mansplaining si trasforma in un modo per escludere le donne, anche se qualificate, dalle decisioni di responsabilità. Una delle vignette realizzate per la campagna di Unionen mostra proprio uno dei rischi di questo comportamento: si vedono due uomini e una donna, colleghi tra loro; uno dei due dice: «Abbiamo dimenticato di invitarti ieri dopo il lavoro. Comunque Steffe per caso ha portato la cartella con i documenti strategici, abbiamo bevuto un paio di birre, sai una tira l’altra, e alla fine ci siamo ritrovati ad aver preso una decisione».
Christina Knight, un’esperta di questioni di genere svedese che ha lavorato per Unionen alla realizzazione della campagna telefonica, ha spiegato che la reazione migliore verso il mansplaining è dire qualcosa come: «In questo momento mi stai parlando come se fossi una bambina o mi stai dicendo qualcosa di cui sono parecchio esperta, e mi farebbe piacere se la prossima volta tu iniziassi la conversazione chiedendomi se mi interessa saperne di più, se ho bisogno di chiarimenti o se so già quello che mi serve sapere».