Dietro gli scontri di Portland
Il Washington Post spiega come i disordini iniziati dopo la vittoria di Trump abbiano fatto riaffiorare vecchie tensioni in una città di sinistra ma quasi completamente popolata da bianchi
di Leah Sottile – The Washington Post
Portland, la città più grande dello stato americano dell’Oregon, viene spesso dipinta come un rifugio dei progressisti: una roccaforte di hippy e hipster, femministi e vegani, gente che va al lavoro in bici, coltivatori urbani, persone che allevano polli nel cortile di casa e presunti intenditori di caffè. A decenni di distanza dalle proteste per la pace che le fecero guadagnare il soprannome di “piccola Beirut”, la reputazione di Portland di città di sinistra è stata consolidata ben oltre il nordovest degli Stati Uniti grazie agli stereotipi esagerati – ma a volte calzanti – della serie tv comica Portlandia.
Negli ultimi giorni, però, con l’inizio delle proteste in diverse città statunitensi contro l’elezione di Donald Trump, le manifestazioni per lo più pacifiche di Portland sono state macchiate da un’insolita violenza. Giovedì una marcia nella città si è trasformata in una sommossa violenta quando degli anarchici con delle mazze da baseball hanno iniziato a prendere di mira vetrine, parabrezza e quadri elettrici. Nella giornata di sabato un manifestante è stato colpito a una gamba da un colpo di pistola, e nella notte i manifestanti hanno riempito le strade del centro nonostante i tentativi di dissuasione da parte delle autorità della città e degli organizzatori delle proteste. La maggioranza delle 71 persone che sono state arrestate – soprattutto maschi bianchi con un’età media di 25 anni – è stata accusata di disordini pubblici. Sabato pomeriggio il sindaco di Portland Charlie Hales, visibilmente frustrato, ha detto durante una conferenza stampa di avere un messaggio su Portland da dare al resto del mondo: «Siamo una città fieramente progressista», ha detto, per poi aggiungere «uso questa parola con tutto l’affetto possibile, nonostante ad altre persone faccia ribollire il sangue». La violenza a Portland – ha poi detto Hales – «non è la norma».
Domenica pomeriggio centinaia di persone si sono riunite sotto la pioggia per quella che era stata presentata come una marcia pacifica e aperta alle famiglie verso Pioneer Courthouse Square, nel centro della città. I partecipanti avevano dei palloncini e urlavano «Stronger! Together!» [“Più forti insieme”, lo slogan della campagna elettorale di Hillary Clinton, ndt]. Una di loro, la 38enne Ella Gray, ha raccontato di essersi trasferita a Portland da New York con il marito un mese fa perché volevano «essere più sicuri». Quando giovedì alcuni manifestanti hanno frantumato delle finestre e acceso dei fuochi nel loro quartiere, Gray ha raccontato di essere rimasta «sconvolta dal fatto che tra tutti i posti fosse successo proprio a Portland».
L’immagine di unità e armonia di Portland, però, non riflette a pieno il passato della città, né tanto meno il suo complicato presente. Ci sono grandi tensioni per l’aumento vertiginoso degli affitti e per la gentrificazione, che stanno costringendo ad andarsene le persone che lavorano nel settore creativo e i residenti a basso reddito. Dietro l’apparenza ordinata di una città in crescita, dove secondo l’Ufficio del censimento statunitense solo il 6 per cento della popolazione è nera, si nascondono poi le radici delle inuguaglianze razziali e del suprematismo bianco. Quando nel 1859 entrò a far parte degli Stati Uniti, l’Oregon fu fondato come un’utopia bianca ed era l’unico stato la cui Costituzione aveva delle leggi che prevedevano l’esclusione dei neri, con formulazioni che gli elettori hanno deciso di rimuovere solo nel 2000. L’Oregon fu una roccaforte del Ku Klux Klan per tutti gli anni Venti, e gli agenti immobiliari locali adottarono un codice etico che vietava la vendita di case a persone non bianche fino al 1957, quando la discriminazione abitativa venne dichiarata illegale.
La controversa campagna elettorale per le presidenziali e l’elezione di Trump – la cui campagna ha rinvigorito i suprematisti bianchi – sembra aver dato alle tensioni razziali dell’Oregon la possibilità di emergere. La settimana scorsa un liceo locale è stato turbato da un commentatore che sulla pagina Facebook dei diplomandi del 2017 ha suggerito agli studenti di fondare un “Ku Klux Klub“. Il giorno delle elezioni decine di studenti in un liceo di un paese a nord di Salem, la capitale dell’Oregon, si sono riuniti con dei cartelli a favore di Trump e una bandiera confederata, urlando frasi come «Fate le valigie che domani ve ne andate» a degli studenti ispanici, ha riportato lo Statesman Journal di Salem. «L’Oregon è uno stato molto rurale e razzista, anche se noi continuiamo a perseguire il progressismo», ha detto giovedì sera Teressa Raiford, una manifestante del movimento Black Lives Matter e organizzatrice del gruppo di attivisti Don’t Shoot Portland. Per Raiford la deriva violenta presa dalle proteste è segno che sono dirette da persone che secondo lei non manifestavano per i motivi giusti.
Un sedicente anarchico, il 20enne Armeanio Lewis – che ha detto che questo non è il suo vero nome – ha difeso le violenze di giovedì. «Non erano contro le comunità emarginate», ha detto venerdì, «sono un modo per dichiarare che sono al sicuro. Li proteggeremo». Lewis ha descritto i disordini come «lo scatenamento della rabbia» contro quelle che ha chiamato le violenze sostenute da Trump. Domenica il presidente del Partito Repubblicano dell’Oregon, Bill Currier, ha chiesto le dimissioni di Hales, il sindaco di Portland, e ha esortato la governatrice dell’Oregon, la Democratica Kate Brown, a fare intervenire nella città l’Oregon National Guard, secondo quanto riportato dal Portland Tribune. «Ha perso il controllo», ha detto Currier parlando del sindaco Hales, «la governatrice deve intervenire per ripristinare l’ordine».
Dopo le violenze di giovedì gli organizzatori delle proteste hanno adottato una linea più familiare agli attivisti di Portland. Venerdì Portland’s Resistance, un gruppo allargato che aveva guidato le manifestazioni iniziali, ha tenuto un “heal-in” – un sorta di sit-in riappacificatore – sulla scalinata del comune. Uno degli organizzatori ha letto una lunga lista di richieste che il gruppo voleva fossero soddisfatte: il controllo degli affitti, la fine delle violenze della polizia, aria e acqua pulite, inclusione della comunità LGBT, e il blocco all’apertura di un’attività di acqua in bottiglia da parte di Nestlé nella Gola del Columbia, tra le altre cose. L’organizzatore ha definito le richieste come necessarie per fare di Portland un faro progressista sotto la presidenza Trump. Adriane Ackerman, che moderava la manifestazione, ha chiesto alla folla di parlare «delle nostre frustrazioni, le nostre paure, le nostre risorse» e di rifocalizzare l’attenzione su quelli che ha definito i potenziali danni della presidenza Trump. Per un’ora centinaia di persone si sono divise per quartiere e hanno partecipato a discussioni in piccoli gruppi. In uno di questi, un uomo si alzato e ha detto: «La ragione per cui sono qui è che sono spaventato. Sono queer e non sono contento di quello che sta succedendo». Nonostante gli organizzatori avessero provato a spostare l’attenzione verso il futuro, però, alcune persone tra la folla erano arrivate digrignando i denti e pronte a marciare, come se la violenza della notte precedente le avesse ispirate a sfogarsi contro i problemi della città. Un gruppo di persone con delle sciarpe nere sul volto portava degli specchi a figura intera. «Sono per quando arriva la polizia», ha detto uno di loro, «mostreremo loro che faccia hanno». Quando Ackerman ha iniziato a dire alla folla di riunirsi, la sua voce è stata soffocata dal coro «marciamo» e le persone si sono divise. Alle 20 l’heal-in si era trasformato in una vera e propria protesta anti-Trump, in cui la folla intonava il coro «No Trump! NO Ku Klux Klan! No USA fascisti!».
Sabato Jeff Surgeon, un uomo di Beaverton, un’altra città dell’Oregon, ha guardato lo svolgimento della protesta di quella sera con una giacca aperta sopra una maglietta bianca con la scritta “Trump Pence”. Ha sorriso guardando i manifestanti: «È un po’ assurdo che le persone siano così anti-Trump», ha detto, per poi aggiungere: «Non credo che costruirà un muro vero e proprio. Vuole soltanto mettere in sicurezza i confini». Surgeon ha fatto l’esempio di altri paesi: «Guardate la Corea: loro sono severi con i confini». Surgeon ha detto di non essere stato molestato da alcuni manifestanti per via della sua maglietta: «Tutti hanno la libertà di espressione».
Domenica pomeriggio durante una marcia alcune famiglie si sono riunite portando palloncini e cartelli con messaggi più positivi: “Anche i bambini hanno voce!” e “This Mama Will Miss Obama” (“A questa donna mancherà Obama”). La folla urlava «Stronger! Together!». Mentre la marcia del pomeriggio era riuscita a cogliere lo spirito idealista di Portlandia, l’atmosfera delle proteste dei giorni precedenti si preparava a ripresentarsi per la sesta notte. Portland’s Resistance ha organizzato una veglia con delle candele al Tom McCall Waterfront Park, dove le persone si sono riunite per ascoltare Gregory McKelvey – uno degli organizzatori di Portland’s Resistance – Lewis e altri ancora. Gli organizzatori sono stati chiari: non avrebbero preso le distanze dal comportamento degli anarchici, che secondo loro erano stati incolpati dalla polizia e dai media per i danneggiamenti alla città. Domenica pomeriggio nella zona di Portland nota come Pearl District c’erano ancora dieci vetrine rotte: quelle di Chase Bank, Bank of America e di un ristorante. McKelvey ha citato Martin Luther King per la terza volta in una settimana: «La rivolta è la lingua degli inascoltati», ha detto, per poi aggiungere, «non credo sia giusto incolpare un qualsiasi gruppo per le azioni di singoli individui. Sono stufo di cantare “We Shall Overcome“. Donald Trump sarà presidente, e noi dobbiamo prevalere». Poco lontano, mentre i manifestanti si riunivano nel parco, sotto il Morrison Bridge era appostata la polizia.
© 2016 – The Washington Post