Capire gli elettori di Trump
Ora sono bravi tutti, ma un articolo e un libro scritti prima delle elezioni americane avevano raccontato loro – e le loro ragioni – senza le solite scorciatoie e stereotipi
di Jeff Guo – The Washington Post
L’articolo che segue – tradotto in italiano – è stato scritto dal giornalista Jeff Guo e pubblicato dal Washington Post l’8 novembre 2016, prima che fossero noti i risultati delle elezioni americane. Il libro di cui si parla è uscito a marzo del 2016.
Indipendentemente da chi vinca le elezioni presidenziali statunitensi, passeremo i prossimi anni a cercare di capire cosa è successo. Sappiamo che le persone che votano per Trump sono arrabbiate e sappiamo che sono stufe. Ormai ci sono stati così tanti tentativi di spiegare il trumpismo da far diventare il genere persno oggetto di parodie. Se però vi state facendo delle domande sulla frattura sempre più ampia tra Democratici e Repubblicani negli Stati Uniti, e sul perché oggi la politica sia diventata tanto tesa ed emotiva, una delle persone migliori a cui rivolgere queste domande è Kathy Cramer.
Per gran parte dello scorso decennio Cramer, una professoressa di Scienze politiche, ha attraversato lo stato del Wisconsin – che si trova nel Midwest, la zona centro-occidentale degli Stati Uniti – cercando di entrare nella testa degli elettori che vivono nelle zone rurali. Molto prima dell’arrivo del presidente Obama e del Tea Party, una corrente populista del Partito Repubblicano, e molto prima che l’ascesa di Trump portasse i giornalisti nel cuore degli Stati Uniti all’affannosa ricerca di risposte, Cramer frequentava stalle per la mungitura, tavole calde e benzinai armata di un registratore e prendendo appunti. Il suo studio cerca di capire come le persone delle piccole città interpretano la politica, e le ragioni del modo in cui si sentono e votano (in Wisconsin alle elezioni dell’8 novembre ha vinto a sorpresa Donald Trump, ndt).
Nel corso di questa campagna elettorale c’è stato un forte desiderio di approfondire la psicologia degli elettori di Trump. Il libro di memorie di J.D. Vance Hillbilly Elegy racconta le famiglie distrutte e il decadimento sociale negli Stati Uniti. «C’è una mancanza di azione, la sensazione di avere poco controllo sulla propria vita e la volontà di incolpare chiunque tranne se stessi», ha scritto Vance. Per la sociologa Arlie Hochschild queste persone pensano di essere state tradite. Stando al suo studio, gli elettori bianchi hanno la sensazione che il sogno americano stia svicolando lentamente fuori dalla loro portata, e sono arrabbiati perché pensano che le minoranze etniche e gli immigrati abbiano saltato la fila. L’ultimo libro di Cramer, The Politics of Resentment, offre un terzo punto di vista. Attraverso moltissime interviste agli abitanti del Wisconsin rurale, Cramer mostra come la politica sia diventata sempre di più una questione di identità personale. Quasi tutte le persone con cui ha parlato provavano un profondo senso di amarezza verso le élite e gli abitanti delle città; quasi tutte si sentivano calpestate, non rispettate e credevano che fosse stato loro tolto con l’inganno quello che sentivano di meritarsi.
Cramer sostiene che la “coscienza rurale” sia fondamentale per capire quali argomentazioni politiche hanno risonanza sulle persone che ha intervistato. Per esempio – ha raccontato – la maggior parte degli abitanti delle zone rurali del Wisconsin ha sostenuto la battaglia dei Tea Party per ridurre i poteri del governo non perché credeva nelle virtù di un minore interventismo statale, ma perché non aveva fiducia nel fatto che il governo aiutasse «le persone come loro». «Il sostegno a un minor ruolo del governo da parte di chi ha un reddito basso viene spesso deriso e bollato come l’opinione di persone che si sono fatte ingannare», scrive Cramer. Tuttavia, prosegue, «avendo modo di ascoltare queste conversazioni, è difficile arrivare alla conclusione che le persone che ho studiato abbiano certe convinzioni perché sono state raggirate. Le loro opinioni sono radicate nell’identità, nei valori e nelle percezioni economiche: e questi fattori sono tutti intrecciati tra loro».
Gli elettori delle zone rurali, ovviamente, non corrispondono in pieno agli elettori di Trump. Il libro di Cramer, però, offre un importante modo di pensare alla politica nell’epoca di Trump. In molti hanno sottolineato come la politica americana sia diventata sempre più tribale. Cramer porta quest’idea a un livello superiore, mostrando come queste identità tribali plasmino la nostra prospettiva della realtà. Nei prossimi mesi non sarà sufficiente dire che gli elettori di Trump erano semplicemente arrabbiati. Cramer mostra come la loro rabbia presenti delle sfumature: per comprenderla, sostiene lei, dobbiamo capire come Trump ha sfruttato la percezione che queste persone hanno di loro stesse.
Cramer ha parlato con il Washington Post di Trump e del futuro della politica identitaria dei bianchi: ha passato così tanto tempo con gli abitanti del Wisconsin rurale che spesso, inconsciamente, parla con la loro voce. Queste parti sono segnalate in corsivo. Il Washington Post ha poi modificato l’intervista per renderla più chiara e adattarne la lunghezza.
Per le persone che non hanno ancora letto il tuo libro, puoi spiegare cosa hai scoperto dopo aver intervistato per così tanti anni gli abitanti delle zone rurali del Wisconsin?
Cramer: A essere onesti, mi ci sono voluti molti mesi – ho visitato queste 27 comunità diverse volte – prima di rendermi conto che tra tutti questi posti c’era qualcosa di ricorrente. Tra le persone con cui ho parlato c’era la sensazione diffusa di essere quelli a cui era andata male. Chi vive nelle aree rurali pensa che non sta ricevendo quello che gli spetta.
Questa sensazione si compone principalmente di tre cose. Innanzitutto, le persone sentivano di non avere più potere decisionale. Dicevano cose come: tutte le decisioni vengono prese a Madison e a Milwaukee [le grandi città del Wisconsin], e non c’è nessuno che ascolti noi. Nessuno fa attenzione a noi, nessuno viene qui a chiedere cosa pensiamo. Le decisioni vengono prese nella città, e noi a quelle dobbiamo attenerci. In secondo luogo, queste persone si lamentavano di non ottenere la giusta parte di risorse pubbliche. È una cosa che saltava fuori spesso in relazione alla percezione sulle tasse. Avevano la sensazione che tutti i soldi venissero risucchiati a Madison, la capitale, senza che fossero mai spesi in posti come quelli in cui vivono. Terzo, queste persone avevano la sensazione di non essere rispettate. Dicevano che il vero punto è che le persone nelle città non ci capiscono. Non capiscono com’è la vita rurale, quali sono le cose importanti per noi e quali sono le difficoltà che affrontiamo. Ci considerano un mucchio di bifolchi razzisti. È l’insieme di questi tre fattori: il potere, i soldi e il rispetto. Queste persone hanno la sensazione di non ricevere quanto gli spetta per nessuna di queste cose.
C’era la sensazione che di recente fosse cambiato qualcosa? Che qualcosa avesse cementato questo sentimento? Come mai in questo momento sembra che il risentimento sia peggiorato a tal punto?
Cramer: Questi sentimenti non sono nuovi. Ne ho sentito parlare per la prima volta nel 2007 e si sono formati nel corso di un lungo periodo di tempo, decenni. Ci sono un sacco di grafici che mostrano come le diseguaglianze economiche siano in crescita da decenni. Molte delle storie che le persone mi hanno raccontato riguardo la traiettoria delle loro vite evidenziano il legame con quei grafici, che mostrano come dalla metà degli anni Settanta ci sia stato qualcosa che è andato sempre più storto. Per la grande maggioranza delle persone arrivare a fine mese è diventato sempre più difficile. Credo che questo faccia parte della storia. La rabbia è montata piano piano. È così che funziona il risentimento: continua ad aumentare finché non succede qualcosa. La convergenza di alcune cose fa sì che le persone se ne accorgano: sono davvero incazzato. Sono vittima di ingiustizie.
Cosa pensi sia stato a mettere in moto tutto, quindi?
Cramer: La grande recessione non è stata d’aiuto. Però, come racconto nel libro, le persone non ne parlavano nel modo in cui mi aspettavo. Dicevano cose come: siamo in recessione da anni. Capirai! In parte è stato il Partito Repubblicano ad aver affinato negli anni le sue argomentazioni per sfruttare questo risentimento. Quello che stanno dicendo a queste persone è: «Avete ragione, non state ricevendo la vostra parte, e il problema è che va tutto al governo: e quindi riduciamo il governo». Parte dell’effetto è perciò guidato dalle stesse élite, che dicono: «Avete ragione a essere arrabbiati, e avete ragione a sottolineare questa ingiustizia».
Poi, penso che anche il fatto di avere avuto il nostro primo presidente nero sia parte della questione. Molte delle persone con cui ho passato del tempo hanno detto di essere state inizialmente molto incuriosite da Barack Obama. Credo che la sua etnia, in un certo modo, segnalasse alle persone che era un candidato diverso. Erano aperti nei suoi confronti. Forse questa persona sarà diversa. Ma quando poi il dibattito sull’assistenza sanitaria si è fatto più intenso, Obama è stato eletto presidente ed è diventato estremamente di parte, credo che le persone abbiano iniziato a schierarsi. E, a essere onesti, penso che molte persone abbiano visto l’elezione di un presidente nero come una minaccia. Pensavano: Wow, nel nostro paese sta succedendo una cosa davvero insolita. Cosa vuol dire per quelli come me? Credo che alla fine la sua presenza si sia aggiunta alle ansie delle persone sulla direzione del nostro paese.
Una delle cose che si chiede la schiera di commentatori nei dibattiti infiniti su Twitter è se il fenomeno Trump sia legato soprattutto al risentimento razziale, o se le radici del suo sostegno siano da ricercare in più profonde ansie economiche. Dal modo in cui spesso viene presentato questo dibattito sembra che debba essere l’una o l’altra cosa. Ma credo che il libro offra spunti interessanti per mettere in collegamento queste idee.
Cramer: Da quello che ho sentito nelle conversazioni che ho avuto, in ognuno dei tre elementi che compongono questo risentimento – non sto avendo la parte che mi spetta di potere, risorse e rispetto – l’aspetto etnico è intrecciato a quello economico. Quando queste persone dicono che chi vive nelle città riceve una “parte iniqua”, sicuramente c’è una componente razziale. Però si riferiscono anche a persone come me, una professoressa bianca. Mi chiedono quanto insegno, perché me ne vado in giro per il Wisconsin quando dovrei essere a Madison a lavorare a tempo pieno, o che razza di lavoro è questo? Non è un risentimento rivolto solo alle persone di colore: è un risentimento contro le élite, contro la gente delle città.
Forse il modo migliore per spiegare come queste cose sono intrecciate tra loro è evidenziare il peso della concezione di duro lavoro e di merito nel modo in cui questi risentimenti pesano sulla politica. Sappiamo che quando le persone riflettono sul dare o meno il loro sostegno a determinate linee politiche, spesso quello a cui pensano è se i beneficiari di queste linee politiche sono meritevoli. Di frequente questi calcoli sono intrecciati al concetto di duro lavoro, perché nella cultura politica americana tendiamo a far equivalere il duro lavoro con il merito. Molti degli stereotipi razziali hanno a che fare con l’idea di pigrizia. Perciò quando queste persone giudicano chi lavori sodo e chi no, spesso i non-bianchi non figurano bene nei loro giudizi. Ma non sono solo i non-bianchi. Queste persone dicono: Stai seduto tutto il giorno dietro una scrivania? Quello non è duro lavoro. Le persone che fanno un duro lavoro sono quelli come me: io sono un taglialegna, mi alzo alle 4:30 e mi spacco la schiena. Lo faccio da tutta la vita. Sto logorando il mio corpo per guadagnarmi da vivere. Dal mio punto di vista, attraverso il risentimento e questa concezione di merito possiamo riuscire a capire come l’ansia economica e quella razziale siano intrecciate.
Il motivo per cui l’equazione “Trumpismo=razzismo” non mi convince è che con il razzismo non si mangia. Non ci si può guadagnare da vivere. Non metto in discussione il fatto che gli studi dimostrino che tra gli elettori di Trump ci sia molto risentimento razziale, ma spesso l’argomentazione si interrompe qui: «Sono razzisti». Mi sembra un modo molto limitato di considerare il problema.
Cramer: Pensare che i neri lavorino meno sodo dei bianchi è assolutamente una cosa razzista. E quindi? Siccome bolliamo una grossa fetta della popolazione come razzista, le preoccupazioni di queste persone non sono più meritevoli di essere prese in considerazione? Come potremo mai occuparci dell’ingiustizia sociale con una comprensione così limitata delle cose? Certamente parte di questo risentimento ha a che fare con l’etnia, ma riguarda molto anche le effettive condizioni di vita delle persone. Dobbiamo fare attenzione a entrambe. Come dimostra il tuo pezzo sui tassi di mortalità, non è solo una questione economica. Le persone stanno subendo anche il declino delle loro condizioni di vita, che è reale.
L’altro elemento davvero importante sono le percezioni delle persone. Alcuni studi dimostrano che potrebbe non essere vero che i sostenitori di Trump stanno peggio degli altri. Però vivono in posti in cui è ragionevole arrivare alla conclusione che le persone come loro siano in difficoltà. Sotto certi aspetti il sostegno a Trump è radicato nella realtà, pensiamo alle difficoltà economiche delle persone e l’effettivo aumento del tasso di mortalità. Ma è la percezione che hanno della loro realtà il vero elemento trainante. Questa campagna elettorale ci ha dato un insegnamento davvero importante.
Approfondiamo il concetto di merito. Leggendo il tuo libro una cosa che mi ha molto colpito è il fatto che le persone con cui hai parlato hanno una percezione forte di quello che meritano, e di quello che pensano dovrebbero avere. Da dove viene?
Cramer: In parte è la narrazione generale che ci raccontiamo negli Stati Uniti. Una delle storie fondamentali nella nostra cultura politica è il “sogno americano”, l’impressione che se lavori sodo andrai avanti. Beh – accidenti – mi sembra che le persone che ho incontrato lavorino molto duramente. Sono stata con loro quando si alzavano a farsi un caffè alle 5:30, prima di iniziare a lavorare. Riuscivo a vedere la stanchezza nei loro occhi. Credo che l’idea che non stanno ottenendo quello che meritano derivi dalla percezione di essere in difficoltà. Queste persone hanno la sensazione di stare facendo quello che è stato detto loro di fare per andare avanti. Ma, in qualche modo, non basta.
In alcune delle comunità più piccole spesso le persone fanno lo stesso lavoro che facevano i genitori – sono agricoltori, o taglialegna – e dicono: mio padre poteva fare questo lavoro e andare in pensione a un’età tutto sommato decente, con una rendita decente. Avevamo una qualità della vita discreta, e la nostra comunità prosperava. Io oggi faccio quello che faceva lui, ma la mia vita è molto più difficile. Sto facendo quello che mi è stato detto di fare per essere un buon americano e andare avanti, ma non sto ricevendo quello che mi avevano detto avrei ricevuto.
L’erosione della classe media c’è stata per tutti, non solo per i bianchi. Sembra però che questo fenomeno abbia spinto solo alcuni elettori a sostenere Trump. Uno dei temi del tuo libro è il modo in cui sia possibile prendere la stessa realtà, gli stessi fatti, ma interpretarli attraverso diversi ordini di idee, arrivando a conclusioni diverse.
Cramer: Il fatto che le persone diano per scontato che il calo della loro qualità della vita sia colpa di altre persone non è una cosa inevitabile. Nel mio libro parlo del risentimento che chi vive nelle zone rurali nutre per quelli che vivono in città. In campagna elettorale Trump l’ha detto molto chiaramente: Avete ragione, non state avendo la vostra parte, e guardate tutti questi altri gruppi di persone che stanno ricevendo più di quanto spetti loro. Immigrati, musulmani, donne arroganti.
Per questo il fatto che per un po’ di tempo Bernie Sanders e Donald Trump siano stati entrambi candidati è così interessante. Credo che il sostegno a Sanders abbia rappresentato una diversa interpretazione dello stesso problema. Per i suoi sostenitori il problema non è che altri gruppi nella popolazione stiano avendo più della parte che spetta loro, ma piuttosto che il governo non stia facendo abbastanza per intervenire e raddrizzare una nave che sta andando nella direzione sbagliata.
Uno dei punti più interessanti del tuo libro è quello in cui parli di come le persone che vivono nelle zone rurali sembrino odiare il governo e volerne ridurre il ruolo, nonostante garantisca loro molti sussidi. Possiamo dire che, in un certo senso, le persone vengono semplicemente prese in giro o ingannate?
Cramer: Sicuramente ci sono degli equivoci e c’è disinformazione. Ma tutti noi ci imbattiamo in informazioni che poi interpretiamo in modo che sostengano le nostre inclinazioni. Dei recenti studi nel campo delle scienze politiche hanno dimostrato che sono quelli di noi che si ritengono i più sofisticati dal punto di vista politico e i più istruiti a caderci più di tutti. Quindi sono contraria all’idea secondo cui gli elettori di Trump sarebbero semplicemente ignoranti. C’è sempre più consapevolezza del fatto che per le persone la politica non riguarda – e suona malissimo, lo so – fatti e politiche. Ha molto a che fare con l’identità, l’idea che si ha del tipo di persona che si vuole essere e di che tipo di persone sono gli altri. A favore di chi sono io, e contro di chi sono? La linea politica fa parte della questione, ma non è la linea politica a trainare questi giudizi. Le valutazioni sono: questa persona è come me? Capisce le persone come me?
Secondo me troppo spesso dedichiamo energie a capire qual è la posizione delle persone riguardo a una determinata linea politica. Penso invece che investire energie per cercare di comprendere il modo in cui vedono il mondo e il loro posto al suo interno ci porti molto più vicino a capire come voteranno, e da quale candidato saranno attratte. Tutti noi – anche quelli istruiti e sofisticati dal punto di vista politico – interpretiamo i fatti attraverso il nostro punto di vista, la percezione di cosa siamo e la nostra identità. Non penso che la cosa da fare sia dare a queste persone più informazioni, dal momento che le interpreteranno filtrandole dal loro punto di vista. Le persone assorbiranno i fatti quando verranno da una fonte che rispettano e che percepiscono abbia rispetto per quelli come loro. Perciò ogni volta che un progressista chiama i sostenitori di Trump ignoranti, stupidi o disinformati non fa assolutamente niente per trasmettere i fatti che sta cercando di trasmettere.
Se Clinton dovesse vincere le elezioni molte persone hanno suggerito che dovrebbe andare in giro per gli Stati Uniti ad ascoltare le persone. Quale sarebbe per lei la strategia migliore per entrare in contatto con loro?
Cramer: La strategia migliore in assoluto sarebbe che Donald Trump, in caso di sconfitta, dicesse: «Ora dobbiamo stare uniti ed essere gentili l’uno con l’altro». Ma non accadrà. Per quanto riguarda la migliore alternativa… sto cercando di pensare a cose realistiche. Per qualcuno che viene da un ambiente esterno dire cose come «ci importa davvero di voi» non è una gran strategia. Il livello di risentimento è troppo alto. Per mesi le persone si sono sentite dire che avevano tutte le ragioni per avercela con il governo federale, che non avrebbero dovuto assolutamente fidarsi di Hillary Clinton, che è una bugiarda e un’imbrogliona, e che Dio ci aiuti se dovesse diventare presidente degli Stati Uniti. Devono essere i nostri leader politici a fare da esempio e mostrarci come esprimere il nostro dissenso, senza però perdere una fiducia di base nel sistema. A meno che non siano loro a iniziare a farlo, non penso che dovremmo aspettarci che lo facciano le persone.
Forse sarebbe meglio smetterla con quest’idea di ascoltare. Di recente in un’intervista hanno chiesto ad Arlie Hochschild come possiamo empatizzare con i sostenitori di Trump, e la cosa è stata presa in giro da alcuni progressisti su Twitter, che hanno scritto cose come: «Perché dovremmo provare a capire in modo profondo e sottile persone che fanno cori antisemiti come JEW-SA [un gioco di parole tra “jew”, ebreo, e “USA”, ndt] ai comizi di Trump?». Questa reazione violenta mi ha fatto pensare al tuo libro.
Cramer: Uno degli aspetti davvero tristi di questo risentimento è che ne genera altro. Ora i progressisti dicono «questi punti di vista non sono giustificabili. Perché mai dovrei averne rispetto e dedicare tempo ad ascoltarli?». Grazie a Dio quando ho iniziato il mio studio ero parecchio ingenua. Se all’epoca fossi stata a conoscenza del livello di risentimento che le persone con cui ho parlato nutrono nei confronti delle donne lavoratrici che fanno parte delle città, non sarei mai entrata in un distributore di benzina alle 5:30 del mattino dicendo: «Salve! Mi chiamo Kathy e vengo dalla University of Madison». Dopo questa campagna elettorale sarei spaventata a morte! Fortunatamente, però, non sapevo di queste opinioni. Quello che è successo è che nel giro di tre minuti le persone sapevano che ero una professoressa della University of Madison; e mi hanno dato una lavata di capo spiegandomi le molte ragioni per cui la cosa le innervosiva. Ma poi abbiamo continuato a parlare. Tornavo a trovarli una seconda, terza, quarta, quinta e sesta volta. E ci piacevamo. Anche alla fine della mia ultima visita mi dicevano: «Sai, sei la prima professoressa di Madison che conosco, e tutto sommato sei normale», e ci mettevamo a ridere. Abbiamo imparato a conoscerci come essere umani.
Si tratta in parte di ascoltare e in parte di passare del tempo con persone di diversa estrazione sociale, che hanno un punto di vista diverso. È una cosa che non ha paragoni. Non lo si può fare comunicando online, o solo con delle buone intenzioni: è il gesto di stare insieme ad altre persone a creare l’impressione che in realtà siamo tutti sulla stessa barca. Ci credo davvero, per quanto possa sembrare una cosa eccessivamente ottimista.
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