Cosa vuol dire essere progressisti
Il Partito Democratico americano ha scelto le battaglie sbagliate e dovrà correggere presto il tiro se vuole riprendersi dopo la sconfitta contro Trump, dice un editoriale del Washington Post
di Staff di editorialisti del Washington Post
Negli Stati Uniti i Democratici si stanno leccando le ferite, stanno discutendo su cosa o chi incolpare per la sconfitta alle elezioni presidenziali e stanno iniziando la battaglia per decidere chi dovrebbe essere il prossimo a guidare il partito. È una cosa normale dopo aver perso la presidenza, entrambe le camere del Congresso e conservato solo 15 governatori. I Democratici, però, stanno anche cominciando a discutere su cosa dovrebbe rappresentare il loro partito. Anche questa è una cosa normale, e potenzialmente salutare. Gli Stati Uniti saranno un paese migliore se avranno un partito di centrosinistra vivace che sostiene visioni progressiste.
Ma cosa significa essere progressisti? Non vogliamo stilare qui un programma: è un dibattito che andrà avanti – e così dovrebbe essere – per mesi, che si spera riesca ad attingere a nuove idee e a leader emergenti, e su cui ci aspettiamo di tornare spesso. Vorremmo, tuttavia, sottolineare come in alcuni ambiti fondamentali le persone che si definiscono come l’ala progressista del Partito Democratico statunitense – che viene identificata nei senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren – stiano abbracciando principi che non sono veramente progressisti. Nello specifico: queste persone vogliono espandere i programmi di assistenza del governo e distribuire i sussidi nel modo più ampio possibile – università e assistenza sanitaria gratuite e l’allargamento della previdenza sociale – indipendentemente dalle necessità o dalle risorse disponibili; fanno prevalere la ridistribuzione sulla crescita; la loro apparente difesa dei lavoratori americani non lascia spazio alle considerazioni sul benessere dei poveri nel resto del mondo. Da tutti e tre questi punti di vista, pensiamo che i valori morali più alti e le linee politiche più intelligenti siano altrove.
Prendete per esempio l’università gratuita, uno dei punti chiave della campagna elettorale di Bernie Sanders. Generalmente vengono presentate due argomentazioni a favore dell’universalità di un sussidio del genere. Il primo è di natura politica: se tutte le persone ottengono il servizio, tutti quanti faranno pressione sugli organi legislativi statali perché continuino a finanziarlo. L’altra argomentazione è invece di tipo morale: è una cosa che la società dovrebbe fare. Non facciamo pagare ai ricchi le rette per il liceo; perché per l’università dovrebbe funzionare diversamente? La nostra risposta – quella progressista, diremmo noi – è che nella società americana ci sono persone che hanno bisogni molto più importanti di quelli di una famiglia di ceto medio-alto di una ricca contea che se Sanders venisse accontentato verrebbe sollevata dall’onere della retta di un prestigioso college americano. In un periodo di risorse limitate, gli Stati Uniti si stanno davvero occupando delle persone “lasciate indietro” nelle piccole città, della cui difficile situazione si sarebbe apparentemente fatto paladino il presidente eletto Donald Trump? E quella delle madri e dei figli che rimangono intrappolati in una povertà transgenerazionale nelle città più grandi? I programmi del governo dovrebbero andare a beneficio di quelli che hanno più bisogno di una mano.
Lo stesso discorso vale per la previdenza sociale. Si possono espandere i sussidi per tutte le persone, come vorrebbe Elizabeth Warren. I pensionati benestanti che vivono quasi esclusivamente grazie a consistenti piani pensionistici aziendali – i cosiddetti 401(k) – apprezzeranno quello che per loro sembrerà un piccolo bonus, sempre che se ne accorgano. Ma allargare la ricchezza in questo modo renderà più difficile trovare le risorse per gli anziani vulnerabili che dipendono veramente dalla previdenza sociale. Ci soffermiamo un attimo per fare dell’autodifesa preventiva, vista la facilità con cui il dibattito fiscale si presta a rappresentazioni caricaturali. Quando diciamo che le risorse sono limitate, non sosteniamo che il pareggio di bilancio debba essere raggiunto domani. Non siamo contrari agli investimenti in infrastrutture, istruzione e ricerca, tutte cose a cui anzi siamo favorevoli. Ma non possiamo sperare che l’andamento demografico – cioè l’invecchiamento della popolazione – sparisca semplicemente ignorandolo. Negli anni Sessanta ogni americano che beneficiava delle prestazioni di previdenza sociale era sostenuto da circa cinque contribuenti e l’economia cresceva all’incirca del 6 per cento annuo. Oggi per ogni pensionato ci sono meno di tre lavoratori e il tasso di crescita dell’economia americana ha mantenuto medie del 2 per cento circa anche dopo la recessione del 2008. Con i trend attuali, tra dieci anni il governo federale spenderà quasi tutti i suoi soldi per Medicare – il programma di assicurazione medica rivolto agli anziani – per la previdenza sociale e altri programmi assistenziali, oltre che per pagare gli interessi sul debito, lasciando così sempre meno risorse a disposizione di scuole, programmi abitativi e formazione professionale. Non c’è niente di progressista in tutto questo.
Questa è uno dei motivi per cui sosteniamo che anche la crescita economica è un obiettivo progressista. Non è un obiettivo sufficiente: la crescita deve essere condivisa, e non risucchiata dall’un per cento più ricco della popolazione. La crescita non è un obiettivo in conflitto con quello della ridistribuzione: ci sono ragioni per pensare che le ineguaglianze possano rallentare la crescita. Ma nel corso della storia degli Stati Uniti la crescita economica è stata un fattore fondamentale per la maggiore prosperità di tutti gli americani.
Cosa si traduce tutto questo quando si tratta di governare? Il governo può incentivare la crescita? Se sì, come? Sul tema c’è grande dibattito. Come minimo, però, un progressista dovrebbe volere la crescita, pensare due volte prima di denigrare il mondo delle imprese nel suo insieme e prendere in considerazione gli effetti sulle imprese quando sostiene l’adozione di nuove norme e regolamenti.
Infine, quando pensano al commercio e al mondo, i veri progressisti dovrebbero tenere a mente una statistica citata dal presidente Obama nel suo ultimo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: negli ultimi 25 anni la quota di persone nel mondo che vivono in situazione di povertà estrema è scesa dal 40 a meno del 10 per cento. Per il progresso umano è un risultato sbalorditivo, che non ha precedenti nella storia del mondo, raggiunto mentre la popolazione globale cresceva e per merito soprattutto della globalizzazione economica. Dal punto di vista economico, questa tendenza favorisce gli americani, in quando offre loro mercati in cui vendere. Ma il calo della povertà globale dovrebbe essere celebrato anche come fatto in sé.
Comprendiamo le difficoltà politiche che stanno alla base di queste argomentazioni: la campagna di Trump è stata incentrata su proposte che farebbero aumentare il debito federale americano molto di più rispetto a qualsiasi programma dei Democratici, e i suoi sussidi sarebbero mirati a favore dei ricchi. Le sue proposte per quanto riguarda il commercio sarebbero molto più dannose. Opponendosi a qualsiasi programma governativo o regolamentazione, tra cui, a torto, anche Obamacare – che vengono considerati ostacoli insormontabili all’occupazione – i Repubblicani rendono quasi impossibile portare avanti una discussione razionale basata sui compromessi. Se proveranno a governare sulla base di queste proposte, perché i Democratici, che sono ora la minoranza, dovrebbero essere più responsabili? È molto più semplice sostenere di difendere i lavoratori americani attaccando la Cina o il Messico, dichiarando che ogni problema si può risolvere svuotando le tasche dei ricchi e promettendo sussidi governativi a ogni famiglia di elettori. Ma se i Democratici sperano di far meglio nel 2018 – quando negli Stati Uniti si voterà per le elezioni di metà mandato – dovranno fare di più che limitarsi a fare opposizione a Trump e superarlo in quanto a promesse irrealizzabili. Avranno bisogno di una versione di progressismo costruttiva e moderna, che abbracci crescita, equità e opportunità per tutti.
© 2016 – The Washington Post