Le ragioni di un’elettrice di Trump
Un'ex giornalista di origini indiane – e musulmana – ha spiegato al Washington Post perché ha deciso di votare Trump
di Asra Q. Nomani – The Washington Post
Asra Q. Nomani è un’ex giornalista del Wall Street Journal e cofondatrice del Muslim Reform Movement. Il suo account Twitter è @AsraNomani.
Si sta parlando molto dei “silenziosi sostenitori segreti di Trump“. Questa è la mia confessione, e la mia spiegazione: io – un’immigrata musulmana di 51 anni, “di colore” – sono una degli elettori silenziosi di Donald Trump. Non sono una “fanatica”, una “razzista”, una “sciovinista” o una “suprematista bianca”, per usare alcuni dei termini con cui vengono definiti gli elettori di Trump, né tanto meno parte della cosiddetta “reazione bianca“. Sono una progressista da una vita e una figlia fiera del West Virginia – uno stato nato dalla parte giusta della storia della schiavitù – che nell’inverno del 2008 si trasferì in Virginia – uno stato storicamente conservatore – solo perché i suoi elettori avevano aiutato Barack Obama a diventare il primo presidente nero degli Stati Uniti. Poi, però, per gran parte di quest’ultimo anno, ho tenuto nascosta la mia preferenza elettorale: propendevo verso il candidato presidente del Partito Repubblicano, Donald Trump.
Martedì sera, qualche minuto prima della chiusura dei seggi alla scuola elementare Forestville di Fairfax County, una contea prevalentemente Democratica, mi sono infilata tra i divisori della cabina elettorale, con la penna ben in equilibrio tra le dita, e ho compilato la mia scheda elettorale annerendo il cerchietto di fianco ai nomi di Trump e del suo candidato vicepresidente, Mike Pence.
Dopo la telefonata con cui Hillary Clinton ha riconosciuto la sconfitta a Trump, facendolo così diventare il presidente eletto degli Stati Uniti, una mia amica ha scritto su Twitter una lettera di scuse al mondo in cui ha detto che ci sono milioni di americani che non condividono «l’odio/la divisione/l’ignoranza» di Trump, per poi concludere dichiarando la sua «vergogna per i milioni di persone che invece li condividono». Presumibilmente le sue parole includevano anche me. Non è così, ed è questo rifiuto che ha portato alla sconfitta di Clinton. Respingo senza il minimo dubbio il trittico «odio/divisione/ignoranza», e sostengo le posizioni del Partito Democratico su aborto, matrimoni gay e cambiamento climatico. Ma sono una madre single che con la riforma sanitaria di Obama non riesce a permettersi l’assicurazione sanitaria. Il programma del presidente rivolto alle persone che devono pagare un mutuo, “HOPE NOW“, non mi ha aiutata.
Martedì sono andata in auto in Virginia dalla mia città, Morgantown, in West Virginia, dove vedo persone dell’America rurale e americani normali, come me, che fanno ancora fatica ad arrivare a fine mese dopo otto anni di amministrazione Obama. Infine, come musulmana moderata che ha vissuto in prima persona l’estremismo islamista nel mondo, sono stata contraria alla decisione del presidente Obama e del Partito Democratico di cincischiare sulla parola “Islam” in relazione allo Stato Islamico. Ovviamente la retorica di Trump sul tema è stata molto più che indelicata, e si può avere una divergenza di opinioni sulle sue indicazioni politiche in merito. Credo però che la sua retorica sia stata esasperata e demonizzata dai governi di Qatar e Arabia Saudita, dai loro mezzi d’informazione, come Al Jazeera, e dai loro rappresentanti in Occidente, che hanno offerto una comoda distrazione dalla questione che mi preoccupa di più come essere umano: il tipo di Islam estremista che ha provocato spargimenti di sangue dai corridoi del hotel Taj Mahal di Mumbai fino alla pista da ballo del Pulse di Orlando, in Florida.
A metà giugno, dopo la tragica sparatoria del Pulse, Trump ha twittato un messaggio nel suo tipico stile sottile: «Il presidente Obama userà finalmente le parole “terrorismo radicale islamico”? Nel caso in cui non lo faccia dovrebbe dimettersi immediatamente con disonore!». Nello stesso periodo, durante il programma di CNN New Day, la candidata Democratica Clinton è sembrata cincischiare come Obama: «Dal mio punto di vista, le nostre azioni sono più importanti di quello che diciamo. È stato importante prendere bin Laden, non il modo con cui l’abbiamo definito. Ho detto chiaramente che non importa che lo si chiami jihadismo radicale o islamismo radicale: sono felice di usare entrambe le definizioni. Credo che il significato sia lo stesso».
A metà ottobre, è stata una mail di Clinton del 17 agosto 2014 diffusa da WikiLeaks ad avvelenarmi il pozzo. Nell’email Clinton diceva al capo del suo comitato elettorale John Podesta che «dobbiamo usare le nostre risorse diplomatiche e quelle di intelligence più tradizionali per fare pressione sui governi di Qatar e Arabia Saudita, che stanno fornendo clandestinamente sostegno finanziario e logistico all’ISIL» – il nome politicamente corretto dello Stato Islamico – «e ad altri gruppi sunniti nella regione». Le rivelazioni sulle donazioni multimilionarie fatte alla Clinton Foundation da Qatar e Arabia Saudita hanno soffocato definitivamente il mio sostegno a Clinton. Certo, voglio la parità di retribuzione. E sì, rifiuto le chiacchiere “da spogliatoio” di Trump, come anche l’idea di costruire un muro tra gli Stati Uniti e il Messico, e il piano di vietare l’accesso nel paese ai musulmani. Ma confido nel fatto che gli Stati Uniti non si bevano l’iperbole di una politica identitaria guidata dall’agenda che ha demonizzato Trump e i suoi sostenitori.
Ho provato a spiegare delicatamente il mio pensiero su Twitter, ma la “rivoluzione dei completi giacca-pantalone” (cioè i sostenitori di Clinton, con un riferimento al suo modo di vestirsi) è stata come un rullo compressore nei confronti di qualsiasi forma di discussione sfumata. Se sostenevi Trump, allora dovevi essere un bifolco del sud. Qualche giorno prima delle elezioni un giornalista indiano mi ha scritto per chiedermi quali fossero i miei pensieri come musulmana nell'”America di Trump”. Gli ho risposto scrivendogli che come figlia dell’India, arrivata negli Stati Uniti a 4 anni nell’estate del 1969, non ho assolutamente paura di essere una musulmana nell'”America di Trump”. Il sistema americano di pesi e contrappesi e la nostra ricca storia di giustizia sociale e diritti civili non permetterà mai che lo sbandieramento della paura che è stato collegato alla retorica di Trump si concretizzi.
La cosa che mi preoccupava di più era l’influenza delle dittature musulmane teocratiche, come quelle di Qatar e Arabia Saudita, nell’America di Hillary Clinton. Queste dittature non sono certo esempi brillanti di società progressiste, con la loro incapacità di garantire i diritti umani fondamentali o modi per ottenere la cittadinanza agli immigrati dall’India, ai profughi siriani e all’intera classe di persone che di fatto vivono in stato di schiavitù sotto quelle dittature. Dobbiamo opporci con coraggio morale non solo all’odio nei confronti dei musulmani, ma anche all’odio da parte dei musulmani, in modo da poter vivere tutti con sukhun, la pace della mente, ho scritto alla fine delle mie riflessioni al giornalista indiano. Che però non ha ricevuto la mia email. Non l’ho rimandata, per paura dell’ira che si sarebbe scatenata contro di me. Ma poi ho votato.
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