L’India non è più convinta dello “spauracchio nucleare”
Sta adottando un approccio sempre più rigido verso il Pakistan, ed è un problema per la prossima amministrazione americana
di Barkha Dutt – The Washington Post
Una delle prime questioni di politica estera che potrebbe richiedere l’attenzione del prossimo presidente degli Stati Uniti è il rapporto tra India e Pakistan. Nella probabile eventualità di una sua vittoria, Hillary Clinton non potrà più contare sul cosiddetto “auto-controllo strategico” dell’India. Il primo ministro indiano Narendra Modi ha modificato drasticamente la tradizionale dottrina indiana sul Pakistan con una serie di mosse inedite molto rischiose. Non vale più nessuna delle vecchie regole. La campagna elettorale di Modi del 2014 prese molto in giro il precedente governo del Congresso Nazionale Indiano (un partito di centrosinistra, ora all’opposizione) per l’approccio troppo morbido nei confronti del Pakistan, promettendo una reazione energica contro i terroristi appoggiati dal governo pakistano. Modi si era vantato di avere una circonferenza toracica di un metro e 40, e le sue parole erano diventate la metafora massima del machismo del suo governo.
Le cose però andarono diversamente. Forte della vittoria politica più larga ottenuta da un primo ministro indiano nei precedenti trent’anni, Modi aveva dimostrato di voler scommettere sulla pace. Nel maggio 2014 aveva invitato per una storica prima volta il primo ministro pakistano Nawaz Sharif alla sua cerimonia di giuramento. Nel dicembre 2015 aveva mostrato un’intraprendenza sconosciuta ai leader che l’avevano preceduto, facendo una visita a sorpresa a Sharif nella città di Lahore, in Pakistan, in occasione del suo compleanno. Quando, dopo la visita, un attacco terroristico aveva colpito una base aerea indiana, Modi aveva mantenuto la calma e aveva permesso ad alcuni investigatori pakistani, tra cui un membro dell’agenzia di spionaggio del paese, l’ISI, di visitare la base militare, un altro fatto inedito che aveva fatto discutere.
Nonostante i tentativi, le iniziative di pace non hanno portato a grossi risultati. Modi si è mosso allora con la stessa determinazione nell’adottare una linea dura contro il Pakistan. Il cambiamento è avvenuto quest’anno durante un periodo di disordini civili durato due mesi nella valle del Kashmir (una regione contesa a nord del subcontinente indiano) e provocato dall’uccisione di un miliziano locale, Burhan Wani. La campagna del governo di Sharif in cui Wani veniva dipinto come una specie di martire a livello internazionale ha suscitato una reazione furiosa da parte dell’India, che ha iniziato a riparlare delle violazioni dei diritti umani compiute dal Pakistan in Belucistan, una delle province del paese. Modi ha condannato gli abusi durante un discorso alla nazione per il giorno dell’Indipendenza dell’India. Quello di Modi è stato uno scostamento radicale dalla linea intrapresa da tutti i precedenti governi indiani: l’India non stava sfidando solo il Pakistan, ma anche la Cina, dal momento che il Belucistan è un’area fondamentale per il progetto cinese di costruire un corridoio economico da 42 miliardi di euro per collegare la regione cinese dello Xinjiang con il porto di Gwadar in Belucistan.
Poi c’è stato l’attacco a un campo militare del Kashmir in cui sono stati uccisi 19 soldati indiani. Undici giorni dopo il governo di Modi ha ammesso pubblicamente per la prima volta che alcuni commando delle forze speciali indiane avevano attraversato la “linea di controllo”, una linea di demarcazione militare che funge di fatto da confine per separare il Kashmir indiano da quello pakistano. Le forze indiane avevano condotto degli attacchi mirati contro quelle postazioni usate dalle forze armate pakistane per agevolare il passaggio di infiltrati armati in territorio indiano. L’azione militare indiana nel Kashmir è stata molto importante e ha mostrato meglio il nuovo approccio del governo Modi nei confronti del Pakistan: costringere i pakistani a pagare molto di più il loro coinvolgimento con i terroristi e sfidare quello che in molti nel partito di Modi definiscono lo “spauracchio nucleare”, cioè l’idea della cosiddetta “deterrenza nucleare” (la dissuasione reciproca di alzare la tensione tra i due paesi per evitare l’uso di armi nucleari).
Il messaggio dell’India non è rivolto solo al Pakistan, ma anche a paesi come gli Stati Uniti che da molto tempo fanno affidamento sulla teoria della deterrenza per gestire le tensioni regionali. Autori come George Perkovich e Toby Dalton (che hanno scritto il libro Not War, Not Peace) sostengono che una controffensiva militare da parte dell’India potrebbe portare a «devastazioni inimmaginabili», anche se uno scenario del genere non si è ancora verificato. Al momento gli scontri sono confinati nello stato di Jammu e Kashmir, lungo il confine internazionale di quasi 200 chilometri e la linea di controllo di 724, dove il cessate il fuoco in vigore da 13 anni rischia ora di essere sospeso. In zone in cui persino le armi di piccolo calibro avevano più o meno smesso di sparare sono tornati a sentirsi i colpi dei mortai.
Quale sarà (e quale dovrebbe essere) la reazione degli Stati Uniti nel caso di un ulteriore aumento delle tensioni sul confine tra India e Pakistan? Un altro attacco terroristico nell’India continentale potrebbe far saltare tutti i piani. A differenza di Trump, Clinton conosce bene i metodi con cui da decenni lo “stato profondo” pakistano usa il terrorismo come un’arma virtuale di guerra asimmetrica contro l’India. Nel giugno del 2014, durante un’intervista, Clinton mi disse che alcune persone all’interno dell’esercito pakistano e nella principale agenzia di spionaggio del paese, l’ISI, «pensavano erroneamente che avere determinate deleghe nei confronti di India e Afghanistan fosse nell’interesse del Pakistan: non solo nell’interesse delle forze armate, ma anche nell’interesse sovrano», paragonando poi questo atteggiamento al «tenere dei serpenti velenosi nel proprio cortile aspettandosi che mordano soltanto il tuo vicino», per sottolineare come i jihadisti e gli oscurantisti avessero iniziato a divorare il Pakistan dall’interno.
Quando era ancora segretario di Stato, Clinton offrì una ricompensa di 10 milioni di dollari in cambio di informazioni che portassero all’arresto Hafiz Saeed, il principale ideatore degli attentati terroristici di Mumbai del 26 novembre 2008, e del capo del gruppo terroristico Lashkar-e-Taiba. Durante gli attacchi, che andarono avanti per 72 ore, vennero uccise 166 persone, tra cui 6 americani. Clinton mi raccontò di essere rimasta colpita pensando a quanto «difficile» doveva essere stato per l’India mantenere l’«auto-controllo» dopo gli attacchi. Ora il messaggio dell’India a Washington è che quell’auto-controllo non può più essere dato per scontato. In India l’orgoglio con cui Clinton ha parlato del suo monitoraggio delle operazioni che portarono all’uccisione di Osama bin Laden nel suo nascondiglio in Pakistan ha fatto pensare che la sua amministrazione potrebbe adottare parte della famosa linea aggressiva di Clinton nei confronti del Pakistan, introducendo restrizioni agli aiuti militari, una dura pressione economica per bloccare le attività dei gruppi terroristici, e una linea di politica estera che non metta sullo stesso piano – o peggio, differenzi di poco – India e Pakistan. A settembre, durante un evento di raccolta fondi privato in Virginia, Clinton ha messo in guardia dai pericoli di un colpo di stato jihadista in Pakistan e dai possibili «attentatori suicidi dotati di armi nucleari». Clinton comprende la situazione: e questo vuol dire che nei suoi primi giorni da presidente potrebbe trovarsi costretta a parlare in modo chiaro al Pakistan, molto prima di quanto avrebbe pensato.
© 2016 – The Washington Post