C’è poco da fare, in Turchia
La sconsolata presa di posizione di una giornalista di Cumhuriyet, un rispettato quotidiano turco il cui direttore è appena stato arrestato, pubblicata dal Washington Post
di Asli Aydıntaşbaş – Washington Post
La rapidità con cui la Turchia si sta rovinando è impressionante, anche se vissuta giorno per giorno. Questa settimana è iniziata con il governo turco che annuncia di voler reintrodurre la pena di morte su iniziativa del presidente Recep Tayyip Erdogan, in modo che possa estendere il consenso fra gli ultranazionalisti e consolidare il suo potere. Pochi giorni dopo, sono stati arrestati 9 giornalisti – fra cui il direttore – di Cumhuriyet, il più antico giornale turco e simbolo di un laicismo che va disperdendosi, con false accuse di terrorismo e associazione al movimento di Fethullah Gülen, il religioso accusato di avere organizzato il colpo di stato del 15 luglio 2016. Giovedì sera sono stati arrestati Selahattin Demirtas, il carismatico leader del principale partito filocurdo del paese, e il suo collega Figen Yuksekdag. Oltre a loro sono stati arrestati altri dieci deputati curdi.
Mentre scrivo, ai cittadini turchi viene impedito di comunicare al fine di organizzare manifestazioni di protesta: Twitter è down, Facebook è irraggiungibile e WhatsApp è stato bloccato. Il blocco dei social network è una misura particolarmente superflua: chi è disposto a uscire di casa per manifestare quando è ancora in vigore lo stato di emergenza, e protestare è formalmente vietato? Le manifestazioni di protesta avvengono in società libere o semilibere (o quando le persone percepiscono di poter avere una voce in capitolo). Una volta, le enormi proteste nelle città scuotevano il paese e indirizzavano l’operato del governo. Oggi la Turchia è il fantasma di se stessa. L’ottimismo di quei tempi è sparito.
La storia della Turchia sta diventando quella di una giovane democrazia di ispirazione musulmana che volta le spalle al progresso, e che invece sceglie di rispettare un cliché della politica autoritaria mediorientale: quello di un paese che soccombe a un anacronistico culto della personalità. Dieci anni fa l’AKP – il partito di Erdogan – veniva lodato da tutto il mondo per le sue molte riforme e l’avvicinamento all’Unione Europea: persino io mi ero unita alle lodi. Oggi, la Turchia riesce a malapena a mantenere un rapporto formale coi suoi alleati occidentali, e per i leader europei è diventata un problema.
In questa situazione, l’arrivo di Demirtas aveva portato una ventata d’aria fresca, ed è stata una delle migliori cose capitate alla politica turca negli ultimi anni. Il 43enne ex avvocato per i diritti umani è a capo di una piccola coalizione di curdi, minoranze etniche e partiti di sinistra, con un consenso che a malapena supera lo sbarramento del 10 per cento imposto dalla legge turca. Ma grazie ai suoi discorsi sul pluralismo e la democrazia, Demirtas era riuscito ad allargare il suo consenso oltre la base del suo partito. Era una situazione alla Davide e Golia. Ora che Demirtas è stato arrestato, Erdogan non ha più ostacoli sul tragitto per ottenere un potere assoluto.
Qualche settimana fa a Istanbul ho preso un tè assieme a Demirtas. Era incredibilmente di buon umore, nonostante le voci su un suo possibile arresto. Gli chiesi il perché del suo stato d’animo: «Dobbiamo essere forti. Siamo forti. Abbiamo solo bisogno di riconoscerlo. Credo che il mondo possa interessarsi ai curdi solo se ci riconosce come un popolo forte».
È sempre più difficile capire quanto gli alleati occidentali siano realmente interessati alle condizioni della democrazia in Turchia. Qualche settimana fa ho partecipato a una serie di riunioni a Bruxelles, e intorno all’argomento-Turchia ho avvertito un certo fastidio. Un tempo la Turchia era considerata un candidato ad entrare nell’Unione: oggi gli europei hanno gettato la spugna. Il punto è se proseguire con una procedura di accesso che di fatto è morta, oppure trasformarla in un accordo commerciale di qualche genere. Se solo gli europei fossero stati più accomodanti nei confronti della Turchia, qualche anno fa, forse non saremmo arrivati a questo punto. Chi lo sa. Fa male pensare alla strada che non è stata intrapresa.
È questo il motivo per cui questo periodo è così duro per tutti noi – scrittori, giornalisti, madri, padri e semplici cittadini. In Turchia ce l’avevamo, una cosa che assomigliava a una società libera e aperta. Avevamo istituzioni che si bilanciavano l’una con l’altra, ore di dibattiti televisivi e un sistema politico composto da più partiti e che non era sovrinteso da un’autorità superiore. Avevamo anche un sistema di leggi semi-funzionante – nonostante alcuni problemi – e manifestazioni, comizi, speranze, e intorno a tutto questo la speranza di un progresso.
Tutto questo non esiste più, al momento. Con l’arresto di Demirtas e di altri politici eletti, la Turchia è stata catapultata indietro di molti anni, fino ai primi Novanta (anni di attacchi terroristici, conflitti interni, un’economia ferma e molta disillusione).
Nessuno è felice di questo declino, nemmeno i sostenitori di Erdogan. Nessuno si augura che la storia si ripeta, o che si finisca dentro un vortice mediorientale di autoritarismo, milizie armate e conflitti etnici. Ma chi può fermare tutto questo e battersi per la democrazia? I leader turchi sono troppo egoisti per cambiare direzione, l’opposizione è troppo debole, i cittadini troppo spaventati. Non c’è nessun candidato plausibile, in vista. A volte l’unica cosa che si può fare è stare a guardare mentre un paese va in rovina: è questa la vera tragedia di tutta la vicenda.
©Washington Post 2016