Guida al nuovo Senato
La prima di tre puntate sugli effetti della riforma costituzionale oggetto del referendum il 4 dicembre: cosa cambierebbe se vincesse il Sì, spiegato bene
La parte più importante della riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum il prossimo 4 dicembre è quella che modifica il funzionamento del Parlamento e in particolare modifica radicalmente il Senato. Per la prima delle tre puntate della nostra guida al referendum, spieghiamo come cambierebbe il Senato in caso di vittoria del Sì, e quali sarebbero i pregi e i difetti di queste modifiche.
Da chi sarebbe composto
Secondo quanto dice la riforma, il Senato passerà da 315 a 100 membri (ma in certe circostanze potrebbe averne qualcuno di più). I senatori non saranno più eletti direttamente, come avviene oggi, ma saranno scelti dalle assemblee regionali tra i consiglieri che le compongono e tra i sindaci della regione. In tutto il Senato sarà composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica. Questi ultimi non saranno più senatori a vita come sono oggi, ma resteranno in carica per sette anni e non potranno essere nominati una seconda volta. I senatori di nomina presidenziale non possono essere più di cinque, quindi, in caso di vittoria dei “Sì” al referendum, Mattarella potrà nominarne soltanto uno, visto che attualmente sono in carica quattro senatori a vita.
Alla fine del mandato, gli ex presidenti della Repubblica diventeranno invece senatori a vita. Il numero totale dei senatori, quindi, può essere superiore a 100. I nuovi senatori non percepiranno l’indennità, cioè lo stipendio, ma avranno comunque diritto alle spese per sostenere il soggiorno a Roma e quelle per l’esercizio del mandato. A meno di future modifiche, si parla di circa 6.500 euro al mese. I senatori saranno anche dotati di immunità parlamentare, come gli attuali senatori. Significa che per intercettarli o arrestarli, la magistratura dovrà prima ottenere il consenso del Senato.
Come si elegge
La riforma costituzionale prevede che il Senato venga eletto in maniera indiretta. Non saranno quindi gli elettori a scegliere direttamente i senatori, ma i singoli consigli regionali decideranno quali consiglieri e quali sindaci inviare al Senato. Ogni regione eleggerà senatori in proporzione alla sua popolazione, ma nessuna regione ne potrà eleggere meno di due (la regione più popolosa, la Lombardia, ne eleggerà in tutto 14). Le province autonome di Trento e Bolzano eleggeranno due senatori a testa (un sindaco e un consigliere provinciale ciascuna). Il mandato dei senatori sarà legato a quello delle istituzioni territoriali che rappresentano: i sindaci-senatori, quindi, rimarranno in Senato fino a che saranno in carica come sindaci e i consiglieri regionali rimarranno in carica fino allo scioglimento del consiglio regionale. Di conseguenza ci saranno più elezioni per il senato, che sarà rinnovato in tempi diversi.
La Costituzione prevede anche una disposizione che permette agli elettori di indicare chi vogliono eleggere al Senato. Nell’articolo 2 della riforma, che andrà a modificare l’articolo 57 della Costituzione, è scritto che l’elezione dei Senatori deve avvenire:
[…] in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi. […] Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale.
Significa che le modalità esatte con cui i consigli regionali sceglieranno i senatori dovranno essere stabilite con una legge ordinaria (che seguirà la procedura bicamerale, come vedremo tra poco). Della legge ordinaria che dovrà attuare queste disposizioni attualmente in parlamento non c’è traccia e non è chiaro al momento quale strada sarà seguita.
Cosa fa
La riforma prevede una forte riduzione dei poteri del Senato che avrà come conseguenza principale la fine del bicameralismo perfetto, cioè la forma parlamentare in cui le due Camere hanno sostanzialmente uguali poteri e uguali funzioni (un sistema che, oltre la Romania, non ha nessun altro paese in Europa). Il nuovo Senato non darà la fiducia al governo, che quindi per insediarsi e operare avrà bisogno soltanto del voto della Camera. Queste modifiche sono contenute in particolare nel nuovo articolo 70 della Costituzione. Il procedimento bicamerale, però, non scompare del tutto e rimane in vigore per un numero limitato di ambiti:
- Riforme costituzionali e leggi costituzionali
- Leggi di ratifica dei trattati dell’Unione Europea.
- Leggi sulla tutela delle minoranze linguistiche
- Leggi che riguardano i referendum popolari e le altre forme di consultazione
- Leggi sui casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore
- Leggi che stabiliscono le modalità di elezione dei senatori
- Leggi sulle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane (compresa Roma Capitale)
- Leggi sulle forme particolari di autonomia regionale (cioè le regioni a statuto speciale), sulle elezioni regionali e sui rapporti tra regioni e stati esteri
In tutti gli altri, la Camera legifererà in maniera autonoma: per approvare una legge, quindi, basterà solo il suo voto. Un terzo dei senatori potrà chiedere che vengano apportate modifiche dopo l’approvazione della legge, ma la Camera potrà respingere le modifiche proposte con un voto a maggioranza. Nel caso della legge di bilancio, il Senato la esaminerà sempre, anche se non ne fanno richiesta un terzo dei suoi membri, ma le proposte di modifica potranno essere respinte a maggioranza semplice dalla Camera. Tra le altre competenze rimaste al Senato ci sono la partecipazione all’elezione di due giudici costituzionali, del presidente della Repubblica e dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura.
I risparmi
La campagna elettorale a favore del “Sì” ricorda spesso i risparmi che si otterranno dalla riforma del Senato. Si tratta di cifre contestate dall’opposizione e, in ogni caso, piuttosto basse. Il governo ha parlato di circa 150 milioni di euro, la ragioneria dello Stato di circa 50 e le opposizioni di 40 o meno. È chiaro comunque che la riforma porterà inizialmente a un risparmio di alcune decine di milioni di euro, che potrebbero aumentare in futuro se il personale del Senato sarà ridotto di numero, come è avvenuto con i senatori. Si tratta di cifre poco più che simboliche, considerando che la spesa complessiva per il funzionamento delle due camere attualmente ammonta a 1,4 miliardi di euro e la spesa pubblica complessivamente si aggira tra i 700 e gli 800 miliardi di euro.
La fine del bicameralismo perfetto
I sostenitori del “Sì” dicono che la riforma permetterà di semplificare le procedure parlamentari e quindi di far approvare le leggi più rapidamente, soprattutto grazie alla fine del bicameralismo perfetto. In realtà, oggi è difficile fare previsioni su questo tema. Molto ad esempio dipenderà dai nuovi regolamenti parlamentari che saranno adottati dalle due Camere, che determineranno numerosi dettagli non esplicitati dal testo della riforma. In ogni caso, sembra probabile che i tempi di approvazione delle leggi non cambieranno in maniera particolarmente sensibile. Negli ultimi anni, infatti, il problema delle navette (i provvedimenti che vengono continuamente rinviati tra Camera e Senato) si è considerevolmente attenuato.
Nell’ultima legislatura i disegni di legge approvati con il numero minimo di una lettura per ognuna delle camere sono stati 301 su 391 leggi approvate in totale. Di queste la gran parte erano procedimenti “facili” da approvare, cioè conversione di decreti legge e di trattati internazionali. I ddl governativi, che da anni costituiscono la principale produzione legislativa, approvati con una lettura per camera sono stati 88, mentre 90 hanno richiesto due o più letture. Nelle ultime tre legislature, la seconda lettura al Senato di un disegno di legge (quella che sarà eliminata con la riforma) ha richiesto per i ddl di origine governativa in media 52, 38 e 67 giorni: non molti di più dei 40 che, con la riforma, il Senato si potrà prendere per esaminare una legge già approvata dalla Camera e suggerire eventuali modifiche.
Quelli che oggi procedono in maniera molto lenta sono i ddl di iniziativa parlamentare: nel corso dell’ultima legislatura, per esempio, la prima lettura di un ddl di iniziativa parlamentare ha richiesto in media 306 giorni alla Camera e 411 al Senato. Come dimostra la diversa sorte dei ddl governativi, questa lentezza non sembra avere direttamente a che fare con la “navetta” e il bicameralismo perfetto (per gli impallinati, qui avevamo affrontato in maniera ancora più approfondita la questione dei tempi di approvazione delle leggi e dell’eventualità che il nuovo Senato possa fare ostruzionismo).
I rischi del nuovo procedimento legislativo
Alcuni sostenitori del “No”, invece, sostengono che la complessità delle nuove procedure (cioè la presenza di diversi tipi di procedimento: bicamerali, monocamerali, con modifiche proposte dal Senato che possono essere respinte a maggioranza dei presenti oppure a maggioranza dei componenti) causerà un aumento dei tempi a causa dei continui conflitti. Ad esempio, alcuni esperti hanno indicato un rischio di conflitti tra Camera e Senato quando bisognerà decidere quale tipo di procedimento seguire per provvedimenti molto vasti (come ad esempio le leggi cosiddette “milleproroghe”), che nel loro contenuto abbracciano materie che andrebbero affrontate con procedure diverse. In questi casi, la Costituzione lascia il compito di decidere a un accordo tra i presidenti di Camera e Senato. Anche qui, però, è difficile prevedere oggi quanti e quanto intensi saranno questi potenziali conflitti.
I senatori eletti in maniera indiretta
I critici della riformano sostengono che toglierà spazio democratico ai cittadini perché impedirà loro di scegliere i propri senatori. Si tratta di un’obiezione che potrebbe in parte essere superata se venissero attuate delle leggi che consentono ai cittadini di esprimere durante le elezioni locali quali rappresentanti vogliono eleggere al Senato. I difensori della riforma sostengono che altri paesi in Europa eleggono il Senato in maniera indiretta: è il caso ad esempio di Austria e Germania, dove l’equivalente delle regioni elegge i componenti del senato. In particolare, in Germania i senatori sono nominati dall’esecutivo dei Lander, l’equivalente delle nostre giunte regionali. In Austria i consigli dei Lander, l’equivalente dei nostri consigli regionali, possono scegliere qualsiasi cittadino come componente del senato, ma di fatto eleggono quasi sempre membri dell’assemblea legislativa. L’idea di un Senato eletto in maniera indiretta è stata proposta per la prima volta nel 2007, durante il secondo governo Prodi, da una commissione guidata dall’allora deputato dei DS Luciano Violante.