Cosa deve succedere perché Trump vinca
A sei giorni dalle elezioni americane i sondaggi dicono che sta rimontando, ma c'è davvero stato un "sorpasso" su Clinton? E come vanno le cose negli stati?
di Francesco Costa – @francescocosta
A sei giorni dalle elezioni presidenziali statunitensi, la situazione è diventata improvvisamente più incerta: il distacco nei sondaggi tra i due principali candidati – Hillary Clinton del Partito Democratico e Donald J. Trump del Partito Repubblicano – si è ridotto e tra i due candidati si sono invertiti i ruoli. Se fino a venerdì scorso era Clinton a giocare in attacco, decidendo addirittura di fare campagna elettorale in luoghi tradizionalmente Repubblicani come il Texas e l’Arizona, mentre Trump si barcamenava tra denunce di molestie sessuali e accuse di scarsa credibilità, ora è Clinton a dover fare i conti con il supplemento d’indagine dell’FBI sulle sue email e Trump che per la prima volta cerca di migliorare il suo gradimento in posti come il Michigan e il Wisconsin. Cosa sta succedendo?
A leggere superficialmente le notizie, si potrebbe pensare che la partita sia completamente aperta: un sondaggio nazionale di Washington Post e ABC diffuso lunedì vede Trump con un punto di vantaggio su Clinton e per questo molti, soprattutto in Italia, hanno parlato addirittura di “sorpasso”. Le cose in realtà sono più complicate di così. Innanzitutto, sarebbe un errore farsi un’idea dello stato della corsa affidandosi a un solo sondaggio, quando ogni giorno ne vengono diffusi e realizzati diversi. Quella che segue è la lista – stilata dal New York Times – degli ultimi sondaggi nazionali: nel frattempo anche Washington Post e ABC hanno aggiornato i loro dati, e ora vedono Clinton e Trump pari. Basta dare un’occhiata generale per capire che il “sorpasso” non c’è stato.
Inoltre tutti gli esperti e gli analisti americani suggeriscono di affidarsi alle medie dei sondaggi, che sono un dato più stabile e controllato per capire che aria tira. A oggi la media dice che Clinton ha un vantaggio nazionale di 2,2 punti percentuali nei confronti di Trump, secondo i calcoli di RealClearPolitics. Il grafico mostra evidentemente che più che un crollo di Clinton, si sta assistendo a un “ritorno a casa” di elettori Repubblicani fin qui poco convinti e di persone che fino a qualche giorno fa dicevano di voler votare per Gary Johnson, il candidato del Partito Libertario, e all’attrazione verso Trump di parte degli elettori indecisi, come nota Lorenzo Pregliasco su YouTrend.
In secondo luogo, e questa è la cosa più importante, il presidente degli Stati Uniti non viene eletto con un voto nazionale. Il gradimento nazionale dei candidati può essere un utile indicatore dell’aria che tira, ma niente di più: e anzi può succedere – l’ultima volta capitò ad Al Gore, nel 2000 – che un candidato che abbia ricevuto la maggioranza dei voti su base nazionale perda le elezioni. Il motivo è il metodo con cui si elegge il presidente degli Stati Uniti: senza capire quello, è impossibile capire come leggere i sondaggi e quindi quante possibilità hanno i candidati.
Un piccolo ripassino, quindi
Gli Stati Uniti non eleggono direttamente il presidente. Attraverso un sistema chiamato electoral college (collegio elettorale), infatti, ogni stato elegge con sistema prevalentemente maggioritario – chi ha un voto in più li prende tutti – un gruppo di cosiddetti “grandi elettori”, distribuiti in modo proporzionale alla sua popolazione. In ogni stato, insomma, il candidato che ottiene un voto in più si prende tot grandi elettori e chi perde ne prende zero: e quel tot è variabile di stato in stato (ci sono due eccezioni, Maine e Nebraska, dove il maggioritario è applicato su grandi circoscrizioni interne).
I grandi elettori sono in tutto 538 distribuiti sui 50 stati: questo vuol dire che ne servono almeno 270 per arrivare alla Casa Bianca. Il collegio elettorale si riunisce a dicembre e vota per il presidente sulla base del risultato del voto dei singoli stati. I grandi elettori non sono legalmente vincolati a votare come da esito del voto e hanno solo un obbligo politico, che però è stato violato rarissimamente nella storia degli Stati Uniti e mai in modo determinante.
La distribuzione dei grandi elettori, stato per stato.
Per capire chi è in vantaggio tra Clinton e Trump quindi ci importa poco sapere la loro popolarità nazionale: è importante sapere come il loro consenso è distribuito nei cinquanta stati americani. La mappa che segue mostra lo stato della corsa a oggi secondo i dati di RealClearPolitics, che si basa sulle medie dei sondaggi statali. Gli stati in rosso sono quelli in cui Trump è in vantaggio, gli stati blu quelli in cui Clinton è in vantaggio, quelli grigi sono ancora in bilico. L’intensità dei colori indica il vantaggio dei candidati. Altre mappe del genere forniscono risultati leggermente diversi.
Lo stato della corsa, quindi
Hillary Clinton ha ancora un notevole vantaggio, che però si sta assottigliando: soltanto lunedì, per esempio, RealClearPolitics le assegnava 263 grandi elettori, oggi sono 246. Clinton è in vantaggio perché ha moltissime strade diverse per arrivare a 270 grandi elettori; perché è stata in vantaggio per gran parte di questa campagna elettorale in molti degli stati in bilico; perché ha molti più soldi da spendere (ma molti: non si è mai visto un simile divario in tempi recenti) e perché è molto meglio organizzata di Trump. Bisogna tenere conto infatti che in molti stati americani si sta già votando da giorni: e quindi Clinton, che è molto più organizzata di Trump, ha già portato milioni di americani al voto durante un momento più favorevole della sua campagna elettorale. Di fatto Clinton potrebbe vincere le elezioni anche perdendo in Florida e Ohio, gli stati in bilico per eccellenza: le basterebbe vincere dove ora è in grande vantaggio e aggiungere Virginia, New Hampshire e Colorado, dove è stata avanti per gran parte della campagna elettorale ed è considerata la favorita.
La strada di Trump invece è molto più stretta, ma esiste.
Il primo step è semplice: Trump deve cercare di vincere innanzitutto in tutti gli stati che Mitt Romney portò a casa alle elezioni presidenziali del 2012.
Solo per veri nerd: tutte le mappe elettorali americane.
Trump sta facendo fatica anche solo a vincere negli stati vinti da Romney, che comunque le elezioni le perse: oggi la sua posizione è piuttosto fragile in North Carolina e persino in stati tradizionalmente Repubblicani come lo Utah (grazie al voto di protesta), il Texas e l’Arizona. Se Trump riuscisse comunque a vincere dovunque vinse Romney nel 2012, cosa che per larga parte di questa campagna elettorale è stata molto improbabile, arriverebbe a 206 delegati: gliene mancherebbero ancora 64.
Aggiungendo alla colonna di Trump delle eventuali vittorie in Ohio, Florida, Iowa e Nevada, gli stati in bilico in cui ha le maggiori possibilità, il totale dei delegati farebbe 265: comunque non abbastanza per vincere.
Bisogna portare dalla parte di Trump anche il Colorado, per fargli superare i 270 grandi elettori: ma in Colorado, dove Obama ha vinto sia nel 2008 che nel 2012, Clinton è stata avanti per l’intera campagna elettorale ed è ancora in vantaggio (di circa 3 punti, ma due settimane fa erano 9). Inoltre, il Colorado ha una vasta e crescente popolazione di origini latinoamericane che in maggioranza detesta Trump e che dovrebbe partecipare a queste elezioni come mai nella storia statunitense: in Colorado i Democratici stanno andando bene anche nel voto anticipato, che nel 2012 – quando vinsero comunque – vedeva invece in vantaggio i Repubblicani.
Proprio la questione demografica ci dà una mano per capire dove sarebbe più facile per Trump cercare di strappare alcuni stati ai Democratici: piuttosto che al sud, dove i latinoamericani rendono complessa una sua vittoria anche in posti come il Nevada, Trump potrebbe sfondare più facilmente nel Midwest, dove i bianchi sono ancora la grandissima maggioranza – il segmento demografico che preferisce Trump sono i maschi bianchi, soprattutto quelli con più di 50 anni e un basso livello di istruzione – e la crisi economica ha lasciato ferite e frustrazioni profonde. Trump dovrebbe cercare quindi di vincere in almeno uno o due degli stati che gli analisti americani hanno definito il “firewall” di Hillary Clinton, la diga: posti come la Virginia, la Pennsylvania, il Wisconsin o il Michigan. Trump ha cominciato a battere questi stati negli ultimi giorni, ma ha un compito complicato e pochi giorni per portarlo a termine: in Virginia oggi Clinton è avanti di 4,7 punti percentuali, in Pennsylvania di 6, in Wisconsin di 5,7, in Michigan di 7. Inoltre in alcuni di questi stati, come il Wisconsin, il Michigan e la Pennsylvania, i Repubblicani alle presidenziali non vincono dai tempi di Ronald Reagan. Insomma, è certamente possibile che Trump ce la faccia, ma ancora improbabile.
Cosa deve succedere perché questo accada?
Qui il discorso si sposta dall’analisi dei dati all’analisi politica, quindi su un terreno di minor certezza, ma alcune cose si possono individuare comunque: Trump ha bisogno che ci sia una massiccia partecipazione al voto da parte dei segmenti demografici in cui è più forte (i maschi bianchi, per l’appunto) e una deludente da parte di quelli in cui è più debole (le donne e le minoranze etniche, per esempio: e sembra possa accadere). Inoltre ha bisogno che nei prossimi sei giorni il tema di discussione principale della campagna elettorale restino le email di Hillary Clinton: una storia che spinge gli elettori indecisi e i Repubblicani delusi dalla sua candidatura a votare lui, invece che affidarsi al voto di protesta o restare a casa.
Oppure, ma qui entriamo davvero in un terreno insondabile o quasi, deve sperare in un grosso errore a suo favore nei sondaggi. Molti in queste settimane hanno fatto l’esempio di Brexit, ma è un paragone fuorviante: nel caso del referendum su Brexit diversi sondaggi avevano comunque dato in vantaggio l’opzione “Leave”, e alla fine nella media il “Remain” era in vantaggio di soli due punti, dentro il margine di errore. Perché Trump vinca le elezioni servirebbe un errore di più punti, su più stati, da parte di più società e su più mesi: e il tutto da parte di istituti che alle elezioni presidenziali non compiono errori di questa portata dai tempi di Truman contro Dewey nel 1948. Inoltre si tratta di istituti che sono pienamente consapevoli di questo rischio – elettori di Trump che non si dichiarano – e modificano il loro campione anche sulla base di questo, conoscendo il profilo demografico degli elettori di Trump; e che hanno già sondato Trump durante le primarie del Partito Repubblicano, senza compiere errori rilevanti.
Qualche altro dato
I sondaggi diffusi mercoledì vedono Trump in una posizione migliore rispetto a quelli di martedì o lunedì: Trump ha bisogno che questo trend continui, mentre Clinton tenterà di arrestarlo e invertirlo. Lo scenario descritto qui sopra, quindi, potrebbe diventare più o meno realistico col passare delle ore: anche perché molti elettori indecisi si orientano solo a ridosso del voto, e si prevede che ogni giorno che passa i candidati “terzi” perdano consensi a favore di Clinton o Trump. Esistono dei modelli statistici che cercano di prevedere l’esito delle elezioni non solo aggregando i sondaggi ma pesandoli secondo l’affidabilità degli istituti e tenendo conto anche dei precedenti storici, dei dati demografici e di quelli sull’economia del paese. Queste sono le previsioni di questi modelli, a oggi: la percentuale non indica il gradimento ma le probabilità di vittoria.