Come la Russia è diventata la Russia
Quanto è davvero una minaccia per l'Occidente e quanto c'entrano Vladimir Putin e gli ultimi trent'anni di storia, spiegato dall'Economist
A ottobre l’Economist ha dedicato una sua copertina al presidente russo Vladimir Putin e in sei articoli ha spiegato quanto oggi la Russia si possa considerare un pericolo per l’Occidente, un tema molto discusso negli ultimi anni e tornato di attualità con le recenti crisi in Ucraina orientale e in Siria. Secondo l’Economist, il problema ha a che fare con le conseguenze dell’incompleta dissoluzione dell’Unione Sovietica, più che con Putin in sé, come è spiegato nel primo articolo, che si intitola “Inside the Bear“.
La Russia di oggi non è il prodotto di una necessità storica – tanto meno delle sole scelte di Putin – ma di «determinate scelte politiche fatte dalle élite russe ad ognuno dei bivi storici vissuti negli ultimi 25 anni». L’Economist ha sostenuto la sua teoria affrontando il tema da diversi lati: la situazione economica, la struttura di potere, la politica estera e l’atteggiamento dei giovani russi. Poi ha provato a capire come potrà essere il futuro della Russia e se le scelte adottate nell’ultimo quarto di secolo potranno essere in qualche modo riviste o annullate in futuro.
La situazione economica
Il secondo articolo dell’Economist – il primo è dedicato all’economia ed è intitolato “Mucca senza latte“, un’espressione usata da Loren Graham, un professore di storia al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, che significa che oggi – così come ai tempi dell’Unione Sovietica – i leader russi puntano alla crescita economica senza creare le condizioni necessarie per garantirla nel lungo periodo (apertura dei mercati, libertà e competizione, per esempio). Ma non è sempre stato così. Durante i primi otto anni di presidenza Putin, iniziati nel 2000, l’economia russa crebbe di un impressionante 7 per cento annuo (non troppo distante dalla crescita in Cina), soprattutto grazie alle riforme economiche degli anni Novanta e al boom nel prezzo del petrolio, una delle principali esportazioni del paese. Con la crisi del 2008 l’economia russa subì però una grave battuta d’arresto: nel 2009 il PIL si contrasse del 10 per cento e da allora le cose non sono più tornate come prima. Secondo l’Economist, «parte del problema è il tipo di economia che la Russia moderna ha ereditato dall’epoca sovietica».
La caratteristica dell’industria comunista era quella di essere gigantesca e poco efficiente: «Le fabbriche venivano costruite in posti freddi e inaccessibili, impiegando lavoro forzato. Quello che producevano spesso valeva meno dell’energia e dei materiali impiegati per produrlo», ha scritto l’Economist. All’epoca dell’Unione Sovietica, i manager incaricati di gestire questi immensi e inefficienti complessi industriali impiegavano milioni di persone e avevano molto potere contrattuale con la leadership sovietica. Dopo la caduta del regime, nel biennio tumultuoso 1991-1992, il nuovo governo russo decise di cooptare i grandi manager per mantenere la pace sociale. In cambio del loro appoggio politico, il governo vendette loro le grandi imprese di stato che aveva gestito fino a pochi anni prima. In pratica l’economia chiusa e oligarchica dell’Unione Sovietica – basata non sul talento o l’innovazione, ma sugli agganci di potere – fu trasferita quasi senza modifiche nel mondo post-sovietico. Il risultato di questo processo si è visto chiaramente quando nel 2014 il rublo è stato svalutato per favorire le esportazioni, una scelta rimasta quasi senza conseguenze per l’economia, visto che l’industria russa non produce quasi nulla che sia desiderabile per il resto del mondo.
Cooptare gli oligarchi senza intaccare il loro potere fu una mossa necessaria nel 1992, quando il futuro della Russia sembrava incerto e la possibilità di un conflitto civile concreta. Ma quando Putin arrivò al potere nel 2000, non c’era più alcuna emergenza, anzi: il prezzo del petrolio era in aumento e c’era un forte desiderio di riforme economiche. Nonostante questo «Putin non solo non riuscì a smantellare quelle vecchie strutture sovietiche, ma le utilizzò per mantenere la stabilità sociale e assicurarsi il consenso elettorale». Non distrusse gli oligarchi, ma si limitò a sostituire quelli che non gli erano fedeli.
La struttura di potere
Nel terzo articolo, “Ingranaggi dentro altri ingranaggi“, l’Economist ha raccontato come la struttura a cui si è affidato Putin per gestire il potere abbia avuto molto a che fare con quella dell’epoca sovietica e di come i metodi del presidente ricordino una versione meno sanguinosa di quelli di Stalin. Oggi quasi tutte le grandi società russe hanno tra i loro manager di più alto grado un ex dirigente dell’FSB, il servizio segreto russo erede del KGB sovietico. Lo stesso Putin fece carriera nel KGB/FSB e nel corso degli anni dai ranghi dell’organizzazione ha scelto tutti suoi collaboratori più fedeli. Il potere che oggi l’FSB esercita sulla società russa è immenso e sembra un ritorno ai tempi d’oro del KGB. L’agenzia si occupa della sicurezza nel senso più vasto del termine: controlla direttamente o indirettamente larghe fette dell’economia nazionale, ha a disposizione una sorta di corpo di polizia che funziona in maniera simile all’FBI americana, non risponde a giudici o tribunali ma soltanto al presidente. Secondo alcune voci circolate di recente, Putin vorrebbe modificare ulteriormente l’FSB, trasformando l’agenzia nel nuovo “ministero per la Sicurezza dello stato”, lo stesso nome che l’ente aveva ai tempi di Stalin.
Entrare nell’FSB o nella ristretta cerchia di Putin, però, non è una garanzia di successo. Anche se Putin non è sanguinario come Stalin – che sottoponeva tutta la classe dirigente sovietica a periodiche e violente “purghe” – l’elenco degli alti dirigenti finiti in disgrazia per una sua decisione è molto lungo. Per Putin mantenere i suoi sottoposti in un perenne stato di ansia sul loro futuro è una scelta strategica che ha garantito al suo regime la quiescenza di quasi tutto l’establishment.
La politica estera
Il quarto articolo, “Nebbia di guerra“, si occupa della politica estera di Putin, che è uno specchio della sua politica di sicurezza. Come l’incertezza sul proprio destino mantiene gli alti dirigenti fedeli a Putin, così l’incertezza internazionale serve a mantenere la popolazione leale al regime. Sono tutte strategie che si possono far risalire ai tempi dell’Unione Sovietica, ha scritto l’Economist.
Nel corso degli ultimi 15 anni, la Russia ha inviato forze militari a reprimere ribellioni in diverse aree del paese. Ha invaso la Georgia e l’Ucraina e ha inviato truppe in Siria. Ha utilizzato la disinformazione e la propaganda per destabilizzare i suoi avversari, arrivando al punto di cercare di alterare le elezioni negli Stati Uniti. «Niente di tutto questo è particolarmente nuovo», ha scritto l’Economist: «Tentativi di sovversione, disinformazione e falsificazione erano il cuore dell’attività dell’intelligence sovietica», mentre le operazioni militari negli stati satelliti più riottosi erano la normalità per il regime comunista. Di recente, la macchina della propaganda russa è arrivata al punto di ipotizzare un serio conflitto con gli Stati Uniti (un evento, in ogni caso, molto, molto improbabile). Ma la sola idea che la Russia possa pensare di combattere gli Stati Uniti da pari a pari, per molti russi è un orgoglio almeno tanto quanto è una preoccupazione. Anche in politica estera la Russia di oggi dimostra di voler tornare al periodo precedente la caduta dell’Unione Sovietica: «Agli occhi dei russi, Putin ha restaurato lo status del paese al livello che aveva ai tempi dell’URSS».
«Le guerre in Ucraina, Georgia e Siria non sono un segno della forza della Russia, ma dimostrano una profonda insicurezza», ha però scritto l’Economist. La postura aggressiva di Putin serve a sfruttare la paura, una delle emozioni più costanti nella storia russa. I leader sovietici, a partire da Stalin, sono sempre stati paranoici sui rischi di accerchiamento e invasione da parte dei loro rivali, così come lo erano gli zar prima di loro. Alcuni storici fanno risalire l’insicurezza russa addirittura all’occupazione da parte dei mongoli, quasi ottocento anni fa (“gratta un russo e troverai un tartaro”, dice un antico proverbio).
La visione che ha Putin dell’Occidente è cambiata nel corso degli anni. Quando divenne presidente nel 2000, non aveva una particolare ostilità nei confronti degli Stati Uniti: diceva che la Russia avrebbe anche potuto entrare nella NATO, per esempio. Nel 2004 quando Estonia, Lettonia e Lituania diventarono membri dell’alleanza – un evento che oggi molti russi ricordano come un’aggressione occidentale al loro paese – Putin disse di non essere “preoccupato per l’espansione della NATO”. «Il punto di rottura con l’Occidente arrivò a causa di una serie di eventi apparentemente slegati gli uni dagli altri», ha scritto l’Economist. Nel 2004 l’attacco alla scuola di Beslan, nella repubblica semi-autonoma dell’Ossezia, convinse Putin a sospendere le elezioni locali e nominare direttamente i governatori regionali. Le “rivoluzioni colorate” in Georgia e Ucraina lo spinsero ad accusare l’Occidente di indebite “interferenze” negli affari dei paesi vicini e di voler diffondere degli ideali pericolosi. In altre parole, la postura aggressiva della Russia non è altro che un modo di coagulare consenso interno, facendo leva sulle insicurezze, i timori e l’orgoglio ferito della popolazione russa.
Secondo l’Economist, Putin non ha un piano per conquistare il mondo: «Può essere a volte impermeabile ai ragionamenti logici, ma è sensibile alla forza. Sa bene che non può permettersi una guerra convenzionale con l’Occidente, ma potrebbe rapidamente alzare la posta fino a minacciare una guerra nucleare, sapendo che saranno i suoi avversari a cedere per primi. Nel corso degli ultimi 16 anni, l’Occidente ha fatto poco per persuaderlo del contrario».
I giovani russi
Il quinto articolo, “Parlami di Giovanna d’Arco“, è dedicato ai giovani e a loro atteggiamento nei confronti del regime. Secondo l’Economist, uno dei settori su cui la Russia non è completamente tornata ai tempi dell’Unione Sovietica è quello dei diritti individuali: «Per quanto oggi lo stato reprima le attività politiche e civili indipendenti, consente un grado di libertà personale maggiore di quello consentito nel 1979». Nel recente passato alla Russia non sono mancati grandi movimenti di protesta. Nel 2011, in seguito ad elezioni parlamentari platealmente truccate, migliaia di persone scesero in piazza a Mosca e soprattutto a San Pietroburgo. Erano movimenti animati da giovani “occidentalizzati”, che si nutrivano delle stesse idee e degli stessi prodotti culturali dei loro coetanei in Europa. Da allora però il dissenso è praticamente sparito: «Gli artisti di strada che facevano graffiti per prendere in giro il Cremlino, oggi esaltano l’annessione della Crimea», ha scritto l’Economist.
Oggi il dissenso aperto è stato sostituito dalla disillusione. Le ultime elezioni hanno registrato il record di astensione, soprattutto tra i giovani e nelle grandi città. I ragazzi non vanno più a votare perché credono che non serva a nulla e per lo stesso motivo non organizzano proteste e manifestazioni. Le idee dell’Occidente però continuano a circolare. Per quanto lo stato e la chiesa sua alleata cerchino di diffondere una propaganda anti-gay, anti-scientifica e ultra-nazionalista, i discorsi che si fanno nelle università e nelle scuole di alta formazione sono quelli della comunità scientifica internazionale. I giovani russi conosco la corruzione del sistema e sanno che molte delle idee su cui si fonda sono irrimediabilmente datate. Secondo l’Economist «almeno per il momento, la classe urbana educata non è un problema per Putin. Quella che questo ceto gli rivolge è una sfida differente e potenzialmente ancora più profonda, che ha a che fare con i valori e con le idee».
Il futuro della Russia
Nel suo ultimo articolo, “Prendersi cura della Russia“, l’Economist ha cercato di immaginare il futuro del paese: per quanto le prospettive siano fosche, non è detto che le scelte del passato siano necessariamente determinati per il futuro. Putin conosce i problemi della Russia: la sua inferiorità militare, la crisi economica, un’élite legata al regime soltanto dalla paura e una gioventù istruita che prima o poi inizierà a chiedere più diritti, oppure finirà con l’emigrare, privando la Russia del suo talento. Quello che Putin sta cercando di fare è «cambiare il sistema, mantenendo intatto il suo potere». Nella migliore delle ipotesi Putin «diventerà il Deng Xiaoping della Russia», cioè un riformatore moderato, in grado di aprire uno spiraglio in un sistema chiuso e soffocante senza alterare troppo il bilanciamento dei poteri. Ma «la Russia non è la Cina e Putin sa che, come diceva Tocqueville, il momento più pericoloso per un cattivo governo è quando prova a cambiare».
Se Putin deciderà di percorrere la stessa strada che ha seguito fino ad oggi – mantenere in piedi un sistema politico ed economico repressivo ed estrattivo, continuare un confronto costante e costoso con l’Occidente, perpetuare la repressione del dissenso – il suo sistema di potere rischia di non resistere ancora per molto. «A meno che la Russia non riesca a completare la trasformazione iniziata nel 1991, quello che Putin cerca di presentare come la rinascita del suoi paese potrebbe in realtà rivelarsi l’ultima fase del suo declino».