Parliamo di “Black Mirror”
È passata una settimana dall'uscita della terza stagione: ora possiamo discutere di quell'episodio molto bello, di quelli lì un po' così, e di quelli bruttini
È passata una settimana da quando Netflix ha messo online i sei episodi della terza stagione di Black Mirror, la serie che racconta storie di futuri distopici e incentrate sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia, tra le più riuscite e originali degli ultimi anni. A differenza delle prime due stagioni, che erano composte da tre episodi, la terza ne ha sei e la cosa è stata molto apprezzata dai critici. Il giudizio generale è che ci siano un paio di episodi tra i migliori di sempre, un altro paio nella media, e un paio piuttosto brutti (ogni puntata racconta una storia autonoma, e quindi ha senso valutarle indipendentemente).
Brevissima storia di Black Mirror
Black Mirror fu trasmessa a partire dal 2011 sul canale britannico Channel 4: la prima e la seconda stagione, di tre episodi ciascuna, andarono in onda a poco più di un anno di distanza. Fin dalla prima stagione, ogni episodio di Black Mirror racconta una storia autoconclusiva, totalmente diversa e scollegata da quella precedente e da quella successiva. Già dal primo episodio, la serie ricevette critiche entusiaste, che ne apprezzavano la solidità narrativa e la capacità di parlare di un tema così discusso e già affrontato come le possibili degenerazioni del rapporto tra uomo e tecnologia in modo non scontato. Il veloce successo di Black Mirror dipende anche dal fatto che il primo episodio, che racconta di un primo ministro britannico costretto da un ricattatore a fare sesso con un maiale in diretta televisiva, per evitare che una ragazza della Famiglia Reale venga uccisa, è uno dei più efficaci e sconvolgenti di tutta la serie. Il creatore di Black Mirror, e lo sceneggiatore di tutti gli episodi tranne uno (il terzo episodio della prima stagione, sul chip che registra tutto quello che fanno le persone), è Charlie Brooker, che nella vita è anche un famoso conduttore televisivo e comico britannico. Nel 2015, il popolare servizio di streaming online Netflix annunciò che avrebbe prodotto due nuove stagioni della serie, di sei episodi ciascuna, tutti scritti da Brooker.
(da qui in avanti ci sono dei piccoli spoiler sulla terza stagione di Black Mirror: se non l’avete ancora vista e proprio non volete saperne niente, fermatevi)
Com’è la terza stagione
Rispetto alle prime due stagioni, qualcuno ha notato una certa ripetitività nei temi affrontati da Black Mirror. Su Variety, Sonia Saraiya ha scritto per esempio che sembra che Brooker risolva troppo spesso gli episodi dando la colpa ai social network, «come se la giustizia sommaria e il conformismo di massa non esistessero prima degli hashtag». Almeno due episodi della terza stagione, “Nosedive” e “Hated in the Nation” (il primo e l’ultimo) sono interamente costruiti intorno a una grossa critica ai social network, nemmeno troppo originale. Nel primo, tutte le persone sono iscritte a un’app che associa a ciascuno un certo numero di stelle, da 1 a 5, in base ai giudizi dati dalle altre persone. La protagonista è una donna che da un punteggio di 4,2 vorrebbe arrivare a superare il 4,5, come le persone più popolari e apprezzate, ma le cose iniziano ad andarle male. Nell’ultimo, un criminale misterioso trova un sistema spettacolare e inarrestabile per punire tutte le persone che hanno augurato la morte a qualcuno su Twitter.
Sono entrambi temi già molto esplorati, ma in effetti non erano ancora finiti in Black Mirror: nelle prime due stagioni, l’oggetto principale della critica della serie era stata la televisione come nel famoso episodio del maiale. Già con lo speciale di Natale del 2014 – con Jon Hamm – Brooker si era concentrato sui social network: allora si parlava di un sistema per bloccare le persone sgradite, come si fa su Facebook o Twitter. Anche perché qualcosa di simile a un’app per valutare le persone esiste veramente – si chiama Peeple – Vox ha scritto che “Nosedive” è la puntata più debole di tutta la stagione. Come scrive The Verge, il sottotesto della nuova stagione continua comunque a essere quello delle prime due: «La tecnologia è forte, ma le persone sono terribili, e continueranno a trovare i modi peggiori per usarle». Proprio perché il bersaglio di Black Mirror non è la tecnologia in sé, ma alcune sue applicazioni, la serie non è quasi mai stata giudicata luddista o retrograda, come potrebbe sembrare a prima vista.
Un esempio del modo non scontato in cui è trattata la tecnologia è il quarto episodio della terza stagione di Black Mirror: “San Junipero”. Parla di una tecnologia che consente alle persone anziane di trascorrere periodi di tempo limitati in una fittizia città balneare, in vari periodi storici (l’episodio si concentra sugli anni Ottanta). San Junipero è popolata di anziani – che appaiono giovani – che si divertono e passano le serate in discoteca. Ma soprattutto, a poter abitare San Junipero sono le persone morte, tramite una specie di sistema di delocalizzazione della coscienza: si può scegliere – e lo fanno quasi tutti – di trasferirla in un grande database, vivendo così per l’eternità in un posto immaginario, insieme ai propri cari morti.
La cosa insolita dell’episodio è che, a differenza di tutti gli altri di Black Mirror, non è drammatico: nonostante vengano presentate diverse criticità e perplessità su questa sorta di finta immortalità, le due protagoniste decidono di vivere insieme a San Junipero, e sono felici. Sull’Atlantic, il critico Davis Sims ha scritto che “San Junipero” è stato il suo episodio preferito di questa stagione. Oltre a essere molto diverso dagli altri per il tono generale, è anomalo anche perché non esprime un giudizio netto sulla scelta delle due donne di vivere per l’eternità, anche se in modo virtuale. Ad aiutare c’è anche il fatto che le due protagoniste, Mackenzie Davis e Gugu Mbatha-Raw, sono molto brave. Il regista dell’episodio è Owen Smith, che aveva già diretto “Be Right Back”, un apprezzato episodio della seconda stagione in cui una ragazza faceva riprodurre il suo fidanzato morto in un robot. Anche in quel caso, la storia era meno traumatica della media di quelle di Black Mirror, e puntava di più sulla drammaticità e sull’intensità emotiva che sulla violenza.
Graphtv, un sito che raccoglie i giudizi degli utenti di IMDb sulle varie puntate delle serie tv, mostra che in generale gli episodi della terza stagione hanno una valutazione media più alta di quelli delle prime due stagioni. Questo può dipendere in parte dal fatto che la terza stagione è uscita su Netflix, che l’ha pubblicizzata molto, mentre le prime due, almeno fino a qualche mese fa, erano ancora un po’ di nicchia. L’episodio meno apprezzato è stato “Men Against Fire”, che racconta di un soldato che deve uccidere delle specie di zombie aiutato da un impianto cerebrale che lo aiuta a combattere, e che scopre però che le cose stanno molto diversamente da come gli hanno spiegato i superiori. È un episodio un po’ più piatto e convenzionale degli altri, così come “Shut Up and Dance”, il terzo episodio, che parla di un gruppo di hacker che organizza una rete di ricatti per costringere le persone a obbedire a degli ordini assurdi. Nonostante sia forse l’idea meno originale di tutta la terza stagione, l’episodio ricorda molto per il ritmo e per i contenuti violenti alcune vecchie puntate di Black Mirror, ed è stato il terzo più apprezzato su IMDb.
“Playtest”, il secondo episodio, parla di un ragazzo che si sottopone come cavia per un videogioco horror in realtà virtuale. Su A.V. Club, Zack Hendlen ha scritto che non è un episodio terribile, però «fuori fuoco in un modo deludente, e parla di un concetto molto stereotipato con un sacco di abbellimenti vagamente moderni che quasi mai aggiungono qualcosa, se non una serie di “Oooo, figo eh?”». La storia dell’episodio è costruita sul dubbio che quello che stia vivendo il protagonista in una casa che sembra infestata sia reale o meno: è però intuibile abbastanza presto che qualcosa in qualche modo andrà storto, e il colpo di scena finale è piuttosto prevedibile. Ci sono poi diversi elementi della storia che, se riguardate sapendo come finirà l’episodio, non hanno un senso logico (le telecamere di sicurezza, per dirne una). Dietro l’episodio, poi, non c’è una vera critica: è una variante del vecchio tema videogiochi-realtà.
L’ultimo episodio, “Hated in the Nation”, è quello che ha ricevuto il punteggio più alto su IMDb. Dura 90 minuti, e racconta di un hacker che trova un sistema per (SPOILER!) ordinare a delle api meccaniche – costruite nel Regno Unito per sostituire quelle reali, in via di estinzione – di uccidere le persone. Il bersaglio dell’hacker sono le persone che si accaniscono in massa contro qualcuno su Twitter. È un episodio che ricorda un po’ le serie Fringe e Sherlock, e le protagoniste sono Kelly Macdonald (Margaret Thompson di Boardwalk Empire) e Faye Marsay (l’Orfana di Game of Thrones). Hendlen ha scritto di avere dei dubbi sulla durata dell’episodio, forse eccessiva, e dice che è talmente diversa dalle altre che sembra un primo tentativo di uno spin-off sulle due detective protagoniste. Hendlen dice anche che la caratterizzazione del cattivo è un po’ debole, e che nell’episodio non ci sono sostanzialmente dei veri guizzi: manca tutta la parte in cui si sarebbe potuto mostrare che persona è nella vita reale una che su Twitter augura a qualcuno di morire. Charles Bramesco su Vulture ha dato alla puntata 4 stelle su 5 (a “Noisedive” e “San Junipero” ne ha date 5), dicendo di averne apprezzato i dialoghi, e la capacità di Brooker di affrontare un genere – il poliziesco – inedito in Black Mirror. Nonostante sia un episodio un po’ insolito, i suoi «movimenti agili tra fantascienza cervellotica e moralizzazione che fa leva sull’emotività» lo rendono un buon finale di stagione.