Chi è poi questo Ciriaco De Mita?
Se stasera vedete Renzi in tv con un signore anziano di cui avete già sentito il nome, è perché Renzi è furbo e perché il Novecento non finisce mai
Ciriaco De Mita, che stasera alle 22.30 parteciperà a un confronto televisivo su La7 insieme al presidente del Consiglio Matteo Renzi sul tema del referendum costituzionale, è piuttosto assente dalle notorietà nazionali e contemporanee da anni, malgrado sia stato uno dei politici più importanti della cosiddetta “prima Repubblica”, precedente alla fine dei grandi partiti del Novecento. Ma i grandi giornali, ancora molto legati nelle loro sezioni politiche a quel periodo, lo hanno riscoperto in queste settimane per le sue argomentate posizioni ostili alla riforma costituzionale. E Renzi ha quindi acconsentito a elevarlo a rappresentante del fronte a lui avverso, probabilmente considerando che come rappresentante De Mita ha presso molti italiani un’immagine di “vecchia politica”.
De Mita ha 88 anni: fu il segretario della Democrazia Cristiana – il partito di maggior potere per tutto il primo mezzo secolo di storia repubblicana – dal 1982 al 1989, e presidente fino al 1992, oltre che più volte ministro, e presidente del Consiglio dal 13 aprile 1988 al 22 luglio 1989. È fuori dalla politica nazionale dall’inizio del Millennio, ma il suo ruolo era declinato già dai tempi delle indagini sulla corruzione di “Tangentopoli”, in cui però non venne coinvolto; ma dal 2014 è il sindaco di Nusco, in provincia di Avellino, il paese in cui è nato e a cui ha dato notorietà nazionale. È stato eletto sindaco come membro dell’Unione di Centro (UDC), di cui fa parte dal 2008 dopo un breve periodo all’interno del Partito Democratico.
In tre parole De Mita fu un democristiano di sinistra: con qualche parola in più, il simbolo di una capacità mediatrice e tattica di gestione del potere, fortemente legato al clientelismo dei propri territori e alle complicità con una serie di politici fedeli. Per chi ha meno di trent’anni, oggi: un nome sentito girare di politica vecchia. Per chi ne ha di più, una figurina di altre epoche, tipo Pablito Rossi o Pippo Baudo, e di una politica superata ma ultimamente anche rimpianta da qualcuno.
Dopo aver studiato giurisprudenza all’Università del Sacro Cuore di Milano, De Mita lavorò nell’ufficio legale dell’Eni, di cui all’epoca era presidente Enrico Mattei. Ebbe il suo primo incarico all’interno della Democrazia Cristiana come consigliere nazionale nel 1956 e fu eletto per la prima volta deputato nel 1963. Nel 1968 entrò a far parte del governo come sottosegretario all’Interno del primo governo di Mariano Rumor. All’interno della DC faceva parte di una delle correnti più di sinistra, che veniva chiamata “Sinistra di base” o “la Base” e cercava più delle altre di sottrarre consenso al Partito Comunista all’interno dei ceti operai. Dal 1969 al 1973 De Mita fu vicesegretario del partito, all’epoca guidato da Arnaldo Forlani, e negli anni successivi fu più volte ministro: dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato; del Commercio con l’estero; per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno.
Nel maggio 1982 divenne segretario della Democrazia Cristiana e dopo le elezioni dell’83, quando la DC subì un drastico calo dei consensi, cercò di abolire le correnti interne al partito. Nel 1982 consigliò al governo di Giovanni Spadolini di nominare Romano Prodi come presidente dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che allora era il più grande ente pubblico e in quel momento si trovava in forti difficoltà economiche. Nel 1984 incaricò Sergio Mattarella di occuparsi della DC in Sicilia per individuare tutti i membri del partito che avevano rapporti con la mafia. Fu confermato nel ruolo di segretario fino all’ultimo congresso nazionale, quello del 1989.
Nell’aprile 1988, quando divenne presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita fu il secondo segretario della DC a essere anche primo ministro, il primo era stato Amintore Fanfani. Il governo era sostenuto e formato da cinque partiti (il cosiddetto “pentapartito”): democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali. Pochi giorni dopo l’insediamento del governo, Roberto Ruffilli, senatore della DC e consulente di De Mita per le riforme istituzionali, fu ucciso dalle Brigate Rosse. A maggio, dopo che il leader del Partito Socialista Bettino Craxi aveva mostrato di prenderne sempre più le distanze, si dimise da presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica Cossiga diede il mandato a Giulio Andreotti.
Ciriaco De Mita nella seconda Repubblica
L’ultimo importante incarico istituzionale ricoperto da Ciriaco De Mita fu quello di presidente della cosiddetta “seconda Bicamerale”, una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali; tenne questo incarico dal 1992 al 1993, quando si dimise e Nilde Iotti prese il suo posto. Nel 1996 tornò in parlamento, eletto con il simbolo Democrazia e libertà. Nel 2001 e nel 2006 invece fu eletto con l’Ulivo (la principale formazione politica di centrosinistra dal 1995 al 2007), prima all’interno del partito della Margherita – erede della DC di sinistra e poi confluito nel PD – e poi nel PD. Nel 2008 si candidò al Senato con l’Unione di Centro: Walter Veltroni, allora segretario del PD, aveva rifiutato di candidarlo perché lo statuto del partito prevedeva un massimo di tre legislature complete per i suoi membri; De Mita aveva allora già 80 anni. La lista prese il 6,8 per cento, dunque meno dell’8 per cento necessario, e De Mita non fu eletto per la prima volta dopo ben undici legislature. Dal 2009 al 2014 è stato europarlamentare dell’Unione di Centro.
Perché De Mita voterà No al referendum
In un’intervista al Corriere della sera dello scorso 5 ottobre, De Mita ha spiegato di essere contrario alla riforma costituzionale a causa della legge elettorale: «Ci porta alla fine della democrazia parlamentare. Con l’Italicum eleggiamo il capo, non il presidente del Consiglio. La sera stessa del voto sapremo chi ha vinto, ma non chi ha la legittimazione del consenso popolare. Il premio di maggioranza altera la rappresentanza». Ha anche detto che se non fosse stato per la legge elettorale «forse avrebbe avuto un senso votare Sì» e che secondo lui ci dovrebbe essere una legge elettorale proporzionale.