Le strane elezioni in Somalia
Dureranno più di un mese, non sono a suffragio universale e si basano sostanzialmente sulla scelta dei 135 capi anziani dei clan
Dopo il rinvio deciso lo scorso mese, il 23 ottobre sono cominciate le votazioni per l’elezione di un nuovo governo in Somalia. Quattro anni fa erano state promesse consultazioni democratiche, ma la situazione e le procedure di voto sono piuttosto ingarbugliate e sembrano disattendere ogni impegno.
La Somalia, in breve
La Somalia è uno stato dell’Africa orientale: è stata una colonia francese e poi italiana; poi nel 1947, con il trattato di Parigi, venne sottoposta all’amministrazione militare del Regno Unito e due anni dopo l’ONU la assegnò nuovamente all’Italia in amministrazione fiduciaria per il periodo 1950-1960. L’indipendenza fu proclamata il primo luglio del 1960. La società somala si basa sui clan e sulla distinzione di rango fra coloro che praticano la pastorizia, coloro che praticano l’agricoltura o coloro che fanno altre professioni. La discendenza è patrilineare e al livello più alto di ciascun clan c’è un consiglio di anziani.
Nel 1969 un colpo di stato militare portò al potere il generale Siad Barre, che abolì la costituzione del 1960, proclamò la Repubblica Democratica di Somalia e avviò un programma di profonde riforme economiche e sociali. Negli anni Settanta il paese affrontò, con insuccesso, una guerra per il controllo di alcuni territori con l’Etiopia e abbandonò il suo tradizionale filosovietismo poiché l’URSS aveva sostenuto militarmente l’Etiopia. Nel 1979 il Partito socialista rivoluzionario somalo di Siad Barre divenne l’unico riconosciuto e l’ex generale fu confermato alla presidenza della Repubblica. Durante gli anni Ottanta il peggioramento delle condizioni sociali ed economiche del paese misero in difficoltà il regime, che divenne sempre più repressivo; si svilupparono una serie di altri partiti in rappresentanza dei diversi clan e nel 1991 Siad Barre venne destituito. Ci furono una carestia e una guerra civile che provocarono decine di migliaia di morti e profughi, e la spaccatura delle opposizioni in due fazioni: questa situazione provocò l’intervento, a partire dal 1992, delle Nazioni Unite, che non riuscirono però a garantire una soluzione politica al conflitto e lasciarono il paese nel 1995.
Nel frattempo, dal primo nucleo di volontari reclutati da Siad Barre per combattere l’Etiopia, cominciò a svilupparsi il principale gruppo terrorista dell’integralismo somalo, attivo sia nella guerra civile che contro i militari della missione ONU: l’Unione delle Corti Islamiche, cioè una rete di gruppi islamici, cominciò a prendere il controllo di Mogadiscio, la capitale della Somalia, e di altre zone del paese. Le Corti Islamiche offrivano servizi simili a quelli che normalmente offre un governo locale: furono accolte piuttosto bene dalla popolazione, perché avevano riportato un certo ordine dopo le intense violenze che erano state compiute dal 1991. Le Corti rimasero a Mogadiscio fino a cavallo tra il 2006 e il 2007, quando i soldati dell’Etiopia intervennero in Somalia a sostegno del debole governo di transizione somalo. Nel 2004 i quattro clan principali della Somalia avevano infatti raggiunto un accordo e in Kenya avevano un governo federale di transizione (TFG). La guerra fra esercito governativo e milizie islamiche continuò anche negli anni successivi, mentre la situazione della popolazione somala rimaneva terribile.
Le istituzioni federali di transizione terminarono il loro mandato nell’agosto del 2012. Quell’anno in Somalia venne approvata una nuova Costituzione, venne nominato un nuovo parlamento di 275 membri e Hassan Sheikh Mohamud, attivista ed espressione della società civile, venne eletto presidente, vincendo contro il presidente del governo federale di transizione, Sharif Sheikh Ahmed, dato per favorito ma considerato anche il simbolo del fallimento del processo di transizione democratica del Paese.
E ora?
Nel 2012 il nuovo governo somalo annunciò che nel 2016 ci sarebbero state le elezioni, ma definirle “democratiche” sembra eccessivo. Ora che ci siamo infatti, scrivono diversi osservatori, la promessa elettorale sembra essere stata disattesa con l’invenzione di un sistema «strano e complesso» che durerà più di un mese. Il processo elettorale prevede per esempio l’elezione di 275 deputati della camera bassa del parlamento e 54 deputati della camera alta attraverso un sistema di voto indiretto. L’elezione della camera alta si è svolta lo scorso 5 ottobre e per indicarla, dice per esempio BBC, sono stati usati vari nomi: “elezione indiretta”, “processo di selezione”, “processo semi-elettorale” e “processo politico con delle quote”. I più critici semplicemente hanno detto che si è trattato di un'”asta”, dove all’interno dei vari stati federali è stato scelto chi è riuscito ad acquistare più voti.
Per l’elezione della camera bassa il sistema è più ampio ma sempre di secondo livello: 135 anziani dei clan tradizionali hanno selezionato 14.024 delegati che formano 275 collegi elettorali composto ciascuno da 51 membri. Almeno 16 membri di ogni collegio devono essere donne e 10 devono essere giovani. Inoltre devono essere rappresentativi di tutti i clan i minori. Tra il 23 ottobre e il 10 novembre i 275 collegi dovranno nominare un deputato per la camera bassa secondo una formula che faccia in modo di rappresentare in modo equilibrato i diversi clan (i quattro clan di maggioranza otterranno un numero pari di posti a sedere, e i clan di minoranza otterranno la metà del numero dei seggi assegnati a ogni clan maggioranza). Il 30 novembre i deputati eleggeranno i portavoce delle due camere e, infine, il presidente della Repubblica.
Rispetto al 2012, insomma, non sono cambiate molte cose: quattro anni fa 135 anziani del clan avevano scelto i parlamentari che poi a loro volta avevano scelto il presidente. Questa volta, 14.025 persone sceglieranno i parlamentari, cioè meno dello 0,2 per cento della popolazione. E quei 14.025 sono stati scelti sempre dai 135 anziani dei clan. I critici chiedono perché così tanti soldi, tempo ed energia siano stati spesi per le elezioni in un paese in cui, secondo le Nazioni Unite, quasi la metà della popolazione non ha abbastanza cibo, dove ci sono milioni di sfollati e dove l’estremismo religioso, le milizie dei clan e di altri gruppi armati continuano ad attaccare e a uccidere civili. Per un’elezione a suffragio universale e davvero democratica si dovrà molto probabilmente aspettare il 2020, e questo nella migliore delle ipotesi.