Il libro di Anaïs Ginori sull’edicolante di Charlie Hebdo
Lo racconta Michele Serra su Repubblica, riassumendone le tante storie e metafore
Michele Serra commenta oggi su Repubblica il libro della giornalista Anaïs Ginori, L’edicolante di Charlie, sull’attentato alla redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio 2015. Il libro, che esce oggi, racconta la strage dal punto di vista di Patrick Dechamps, l’edicolante storico di Saint-Germain-des-Prés dove i giornalisti della rivista compravano ogni giorno i quotidiani. Quel giorno Dechamps fu fermato da due attentatori che gli rubarono l’auto con cui stava tornando a casa. Serra sottolinea soprattutto lo stile con cui Ginori tratta la vicenda, attenendosi ai fatti senza mai cedere all’emotività.
Il libro è pubblicato da Bompiani e sarà presentato da Ginori oggi a Roma alle 18.30 all’Associazione Civita e domani a Milano alle 18.30 alla Feltrinelli Duomo.
Ci siamo concessi il tempo, una volta seppelliti i morti, perfino di riflettere sulla liceità delle vignette “blasfeme” pagate con la vita. Fa parte, il beneficio del dibattito, dei tanti lussuosi privilegi di noi occidentali. Ma quel lusso — per fortuna — non abita nel libro di Anaïs Ginori
«L’edicolante di Charlie, che quella strage racconta con l’asciuttezza, direi con l’umiltà, del giornalismo “puro”, quello che considera suo dovere la testimonianza, il racconto, quella collazione dei fatti che, una volta composta, permette al cronista di ritrarsi affidando ad altri il giudizio, il comizio, la lite ideologica.
La materia è così sanguinante che leggendo il libro ci si aspetta, da un momento all’altro, che l’autrice abbandoni il linguaggio dei fatti e si lasci sopraffare dall’enormità dell’accaduto e dalle conseguenti emozioni: tra l’altro è capitato proprio a lei, corrispondente di Repubblica a Parigi, trovarsi sul luogo dell’ecatombe pochi minuti dopo il suo compiersi, con il sangue dei morti ancora caldo, le urla delle vedove accorse, l’aria ancora pregna di orrore. Ma pagina dopo pagina ci si rende conto, al contrario, che il linguaggio dei fatti è forse l’unico che riesce a reggere una trama così atroce; l’unico “all’altezza”, specie se i fatti, così come il libro li ricuce come tanti cocci dopo un’esplosione, hanno una così evidente potenza simbolica. (La cultura classica distingueva tra epica e retorica; in questo senso il libro di Ginori è strettamente epico)»