Bill Murray ti richiama quando meno te l’aspetti
Alla fine ha telefonato al giornalista che lo aveva cercato per mesi, qualche ora dopo la pubblicazione dell'articolo: e ha fatto Bill Murray
di Geoff Edgers – The Washington Post
Alle 12:39 di mercoledì 19 ottobre – un paio d’ore dopo la pubblicazione del mio pezzo su Bill-Murray-che-non-mi-chiama – mi suona il telefono. È Bill Murray. È a New York e sta andando in aeroporto. «Peccato che tu non sia qui su questo taxi che sta andando in aeroporto», mi dice, «ho dei cioccolatini svizzeri». Gli dico che ho provato a contattarlo per settimane, prima di arrendermi. Murray mi risponde che gli era stato riferito ma che non sapeva cosa dirmi. Alla fine aveva deciso di chiamarmi sul cellulare su spinta di Jim Downey, ex autore del Saturday Night Live e suo caro amico. Gli spiego che in realtà l’articolo è già uscito.
«Non ho letto l’articolo», mi dice Murray. «Non so nemmeno dove sia o quando sia uscito. Ti chiamavo nell’eventualità che tu non l’avessi ancora scritto, perché mi hanno detto tutti che parlare con te sarebbe stata un’esperienza piacevole». E così iniziamo a parlare. Dei Chicago Cubs, per cui secondo Murray questa sarà la volta buona, e del musicista John Prine, che tiro in ballo io, senza nessuna ragione particolare oltre al fatto che lo sto ascoltando negli ultimi tempi. La cosa, fortuna vuole, fa accendere Murray, che aveva cercato di far esibire Prine al Kennedy Center in occasione della cerimonia dei Mark Twain Prize for American Humor [un prestigioso premio americano assegnato ad attori comici, che Murray ha ricevuto domenica], senza riuscirci. «Ho pensato che sarebbe stata una cosa carina: nessuno ti fa ridere come John Prine».
Si capisce chiaramente che Murray, come mi avevano già raccontato alcuni dei suoi amici, era davvero combattuto all’idea di ricevere il premio. A festeggiarlo alla cerimonia c’erano anche David Letterman, Ivan Reitman, Jane Curtin ed Emma Stone. «Ho pensato che se non avessi risposto al telefono forse l’avrebbero dato a qualcun altro», mi ha detto Murray. «Ma mi hanno chiamato tutte queste persone. È una cosa fantastica. Mmm. Se le finali di lega di baseball arrivano a gara-6 o gara-7, come succederà di sicuro, non potrò vederle allo stadio [Murray è notoriamente un grande appassionato di baseball e tifa per i Chicago Cubs, che quest’anno giocheranno le finali del campionato nordamericano per la prima volta dopo tantissimi anni, ndt]. Sarò al Kennedy Center circondato da persone che diranno: “Oh, mi fa morire dal ridere”. Ma io preferirei essere seduto in un buon posto allo stadio. La partita dell’altro giorno è stata davvero divertente. Un delirio. E non vedevo l’ora di vederne un’altra. Confido nel fatto che abbiano una tv dietro le quinte. Oggi trovare una radiolina è diventato davvero difficile».
Poi parliamo del tempismo della sua telefonata. Il mio pezzo – su cui ho lavorato per mesi, durante i quali avevo provato a intervistarlo più di una decina di volte – è pubblicato qualche ora prima. Spiego a Murray che è stato difficile fare un articolo che racconta una persona senza poterci parlare, ma che alla fine ho la sensazione che il pezzo funzioni. Mi sono fatto un’idea di come potrebbe essere confrontarsi con un genio creativo, l’uomo che non si è mai accontentato di fare le cose nel modo in cui erano sempre state fatte. «Quando sei messo in un angolo, secondo me, sei costretto a inventarti qualcosa che altrimenti non ti saresti inventato», mi dice Murray, «a me capita quasi sempre. Sempre, in realtà. Escogito un modo per riuscire a fare quella cosa».
Racconto a Murray che ho apprezzato le parole gentili di Downey e dell’attore Norm Macdonald, che mi riferisce gli hanno parlato bene di me. A un certo punto, però, sono stato quasi contento di non aver ricevuto prima la sua telefonata: «Avevo paura che chiamassi all’ultimo e che avrei dovuto riscrivere tutto il pezzo», dico. «E io l’ho fatto», mi risponde Murray, «scusa». «No», gli dico io, «l’articolo ormai è stato pubblicato. Non posso cambiarlo». «Allora puoi rilassarti e goderti il fine settimana», dice Murray. Magari.
Parliamo ancora un po’ dei Cubs, ma so già che Murray mi ha un po’ rovinato i piani, nel senso buono: ora devo trovare un modo per uscire dall’angolo e raccontare la storia di una persona che si rifiuta di essere intervistata per un articolo che parla di lui, salvo poi cambiare idea quando meno te lo aspetti. «Andrà tutto bene», mi dice, parlando in realtà della cerimonia del Mark Twain Prize for American Humor di domenica. «Sopravviveremo. Ora devo andare. Siamo arrivati in aeroporto e devo dare un altro cioccolatino a questo tassista». Poi, per qualche strana ragione, gli dico che se passerà mai da Concord, la città del Massachusetts dove abito, non dovrebbe farsi problemi a venire a trovarmi. Magari potremmo andare al lago Walden o visitare la tomba di Ralph Waldo Emerson. «Mi farebbe molto piacere», risponde Murray, con voce sincera, «Davvero. Andata».
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