Cambia qualcosa se Trump non ammette la sconfitta?
No, se non in particolari e improbabili circostanze che gli permetterebbero di chiedere un riconteggio dei voti
Da alcuni giorni ormai il candidato Repubblicano alla presidenza americana Donald Trump dice che potrebbe non accettare il risultato delle elezioni dell’8 novembre perché secondo lui saranno “truccate” dai media e dai Democratici, e ci saranno irregolarità nelle procedure di voto. Lo ha detto durante il terzo dibattito con Hillary Clinton, la candidata Democratica, e senza portare prove concrete a sostegno della tesi lo ha ripetuto in un comizio il 20 ottobre. Un articolo pubblicato sul Guardian ha spiegato cosa potrebbe succedere se davvero Trump perdesse le elezioni – come i sondaggi dell’ultimo periodo lasciano intendere – e decidesse di non accettarne il risultato, contravvenendo così alla regola non scritta per cui tutte le parti coinvolte riconoscono il risultato delle elezioni.
Il riconoscimento del risultato delle elezioni da parte del candidato sconfitto, e quindi la legittimazione della vittoria del suo avversario, è considerato nelle democrazie moderne un comportamento quasi scontato: riconosce la sconfitta e rinuncia a contestare l’esito del voto. È un gesto per lo più simbolico, che però può avere conseguenze pratiche: nelle democrazie più fragili spesso può fare la differenza tra l’inizio di violenze e contestazioni e una pacifica transizione di potere. Negli Stati Uniti, una democrazia antica e con solide istituzioni e procedure, il riconoscimento della sconfitta elettorale è considerato, come ha detto il moderatore dell’ultimo dibattito tra i candidati Chris Wallace, una “tradizione” e un “orgoglio”, ma come ha scritto il Guardian non ha da un punto di vista legale delle vere conseguenze a meno che lo sconfitto non decida di fare ricorso, un’opzione tuttavia improbabile.
Il sistema con cui viene eletto il presidente degli Stati Uniti – non direttamente dai cittadini, ma attraverso il voto dei cosiddetti grandi elettori che sono incaricati di dare il loro voto al candidato scelto alle primarie del loro partito – potrebbe dare a Trump il tempo di fare un ricorso legale contro l’esito del voto. Anche se alla fine delle procedure di voto dei cittadini viene tradizionalmente annunciato il nuovo presidente, il voto ufficiale che formalmente lo elegge, quello dei grandi elettori, avviene solo qualche settimana dopo. In quelle settimane Trump potrebbe chiedere che le schede elettorali siano ricontate, ma le probabilità che un tribunale gli dia ragione non saranno alte a meno che il margine di voti tra i due candidati non sia molto ristretto, ha spiegato Rick Hasen, il professore della University of California-Irvine che gestisce l’Election Law Blog.
Secondo l’avvocato Repubblicano Donald Brey, citato da Reuters, prima di avviare un qualsiasi procedimento legale per contestare il voto, Trump dovrebbe chiedere un riconteggio delle schede. Le regole per far ricontare i voti variano da stato a stato: in North Carolina, ad esempio, un candidato può chiedere il riconteggio solo se la differenza percentuale di voti tra i candidati è minore o uguale allo 0,5 per cento; in Wisconsin se la differenza è maggiore dello 0,25 per cento il candidato deve pagare interamente i costi del riconteggio. La procedura può essere costosa: un riconteggio locale in Wisconsin in cui erano in ballo 9mila voti è costato 13mila dollari, cioè circa 12mila euro, e alle elezioni presidenziali del 2012 hanno votato più di 3 milioni di persone nello stato.
Se i risultati delle elezioni fossero simili a quanto appare oggi dai sondaggi, Trump dovrebbe contestare i risultati in più di uno stato: per evitare di spendere molti soldi potrebbe rivolgersi direttamente ai tribunali senza chiedere prima dei riconteggi, ma per farlo dovrebbe denunciare un abuso di potere da parte dei funzionari che si occupano delle elezioni. Senza prove sufficienti gli avvocati di Trump farebbero molta fatica a convincere un giudice a dar loro ragione.
Rick Hasen ha detto al Guardian che la cosa che lo preoccupa di più delle affermazioni di Trump sulle elezioni truccate è che potrebbero spingere alcuni dei suoi sostenitori a protestare in modo violento contro la possibile sconfitta del candidato Repubblicano.
Dopo il terzo dibattito televisivo con Clinton alcuni sostenitori di Trump hanno portato come esempio in sostegno delle teorie del candidato il riconteggio fatto in Florida nel 2000, quando George W. Bush prese quasi 500mila voti in meno di Al Gore ma ottenne lo stesso i 25 grandi elettori dello stato, che gli permisero di arrivare a quota 271 grandi elettori, necessari per essere eletto, e divenne presidente. Prima che i grandi elettori votassero, Gore chiese il riconteggio dei voti della Florida, dato che in quello stato la differenza tra i voti ottenuti da lui e quelli di Bush era molto piccola: Bush fece causa a Gore per evitare il riconteggio e alla fine il caso arrivò davanti alla Corte Suprema che bloccò il riconteggio. Gli esperti di diritto americano dicono che però il paragone tra questo caso e la situazione che si prospetta in caso di sconfitta di Trump e successiva contestazione del risultato non regge. Richard Reuben, professore di legge dell’Università del Missouri, ha detto: «In quel caso c’erano dubbi legittimi sul voto. Il caso finì in tribunale e Gore accettò la decisione della Corte Suprema». Gore non era d’accordo con la sentenza della Corte, ma accettò la vittoria di Bush e nel discorso che fece per l’occasione citò Stephen Douglas, che perse le elezioni contro Abraham Lincoln: «I sentimenti di parte devono cedere davanti al patriottismo. Sono con te, presidente, e che Dio ti benedica».