La notte prima della battaglia
Come i peshmerga curdi hanno passato le ultime ore prima dell'attacco verso Mosul, raccontato da Adriano Sofri, che era con loro
Adriano Sofri è vicino a Mosul insieme ai peshmerga curdi (l’esercito del Kurdistan Iracheno), che nella notte tra domenica e lunedì hanno cominciato le operazioni militari contro i miliziani dello Stato Islamico che occupano la città e alcune zone circostanti. Sofri ha raccontato sull’Unità cosa è successo la notte prima dell’inizio della battaglia: di come i peshmerga abbiano acceso dei fuochi, visto che di giorno fa molto caldo ma di sera le temperature scendono fino allo zero, e di come quelli che non erano di guardia abbiano cercato di dormire qualche ora tra edifici distrutti dalla guerra e avvolti in tappeti. Poi, alle 6 di mattina del giorno dopo, è cominciata la battaglia.
Verso Mosul: le operazioni sono state suddivise fra i partecipanti convenuti – poi ci sono gli abusivi. Domenica pomeriggio mi è arrivato l’invito, molto desiderato, a unirmi ai peshmerga del Puk, cioè della metà del Kurdistan radicata a Suleimania e a Kirkuk, incaricati di prendere tre dei nove villaggi in mano al Daesh che costituivano l’ultima barriera per l’avanzata dell’esercito iracheno verso Mosul.
Sono i villaggi di Kharaba Soltan, Kher Kasha e Big Badana, nel distretto di Hamdaniya, a sudest di Mosul. Svolto il compito, i curdi devono fermarsi lì e lasciare l’avanzata dentro Mosul all’esercito iracheno. Dunque è questa la battaglia che racconterò. Anche perché avevo già partecipato, da spettatore partigiano, ad altre battaglie, ma mai alla vigilia e soprattutto mai alla notte che precede l’azione. L’azione comincia ancora, come nelle «giornate» delle guerre di una volta, alla prima luce del giorno, alle 6, di norma, che questi militari chiamano, se ho capito bene «alle Sessanta». Ma come le aspettano le 6? Sappiamo del principe di Condé, che «dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi»: bene, i peshmerga no. E non perché siano trepidanti, non ho mai visto aspettare la battaglia con tanta naturalezza, eppure i peshmerga sono un miscuglio di giovanissimi e di padri di famiglia e veterani: la cosa che si avvicina di più all’idea di un popolo in armi (senza donne o quasi, qui, a differenza che nel Rojava o fra i curdi di Turchia).
Molti restano sui tetti dei villaggetti in rovine in cui ci si insedia per l’occasione, a fare la guardia, qualcuno dorme per terra, ma piuttosto tardi, avvolgendosi in qualunque tappeto, i più fanno dei fuochi e ci restano attorno a scherzare e raccontarsi storie. Fanno dei fuochi: annotatelo, perché di giorno si sta ancora sui trenta gradi e di notte a zero, e neanche il Condé avrebbe chiuso occhio nell’abbigliamento sbagliato. Ospite com’ero e straordinariamente benvoluto ho fatto il giro di una quantità di fuochi e familiarizzato come succede solo in circostanze simili: in galera, in guerra, in un terremoto. A gesti e ad abbracci – i curdi sono espansivi, e anche gli italiani, quando non siano così stupidi da vergognarsene – perché, come ci diciamo scuotendo la testa fra noi stranieri: «Quasi nessuno parla inglese, né francese, né spagnolo».
In realtà, quasi tutti noi non parliamo né curdo, né arabo, né turco, mentre loro lo fanno benissimo. Da quando ci sono i telefonini tutto è cambiato, perché ci si fa la foto, si guarda come’è venuta, poi il video, e si canta in coro e si battono le mani, canzoni inclini al Kurdistan e al suo valore. Si fa anche il tè, sul fuoco. Prima si è cenato, col pane- nan – il riso e un sugo di zucchini o di bamya, la verdura più buona.
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