Il vero terzo candidato negli Stati Uniti
Non è Gary Johnson del partito libertario, né Jill Stein dei Verdi, ma uno sconosciuto 40enne mormone dello Utah che potrebbe far perdere Trump
Negli ultimi giorni molti giornali americani si sono interessati a uno dei molti candidati “indipendenti” alla presidenza degli Stati Uniti (cioè non appoggiati dai partiti istituzionali, quello Repubblicano e Democratico). Il candidato in questione non è Gary Johnson, il candidato del Partito Libertario che qualche sondaggio nazionale dà intorno al 10 per cento, né Jill Stein, la candidata dei Verdi che punta ad attrarre i voti dell’ala sinistra dei Democratici. Si chiama invece Evan McMullin ed è un ex agente della CIA 40enne che si è candidato soltanto ad agosto. Per via del suo ingresso tardivo, il suo nome sarà presente sulle schede elettorali di soli 11 stati: eppure McMullin potrebbe diventare il primo candidato indipendente a vincere in un singolo stato da quasi cinquant’anni a questa parte, e persino risultare decisivo per l’esito delle elezioni. Com’è possibile?
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— Evan McMullin 🇺🇸 (@EvanMcMullin) October 8, 2016
Da dove spunta McMullin, e perché piace allo Utah
La carriera di McMullin finora è stata sostanzialmente anonima: dopo essersi laureato in Economia in una università prestigiosa – la Wharton – ha fatto il volontario per l’agenzia dell’ONU per i rifugiati e ha lavorato per dieci anni alla CIA, per poi finire a fare il consulente per l’ufficio della Camera dei Rappresentanti dei Repubblicani.
L’aspetto rilevante della sua biografia è però un altro: McMullin è nato e vive nello Utah, uno stato occidentale molto conservatore in cui i candidati presidenti Repubblicani vincono ininterrottamente dal 1968. Lo Utah è anche lo stato americano dove è più diffuso il mormonismo, una dottrina religiosa di ispirazione cristiana fondata agli inizi dell’Ottocento: nel 2010 più del 60 per cento della popolazione dello Utah si definiva mormona. McMullin è molto di destra sui temi che interessano alla destra religiosa – diritto all’aborto, finanziamenti alle scuole private, riduzione della povertà – e soprattutto è mormone. Cosa che nello Utah aiuta molto, soprattutto se nessuno dei due candidati istituzionali risulta troppo attraente, per un motivo o per un altro.
È da settimane che i sondaggi locali dello Utah danno McMullin in rimonta. A settembre stimavano i suoi consensi attorno al 10 per cento: una percentuale rispettabile, per un candidato praticamente sconosciuto. Ora siamo un passo oltre: l’ultimo sondaggio diffuso nello Utah, realizzato dal Rasmussen Reports (un istituto solitamente serio), dà McMullin al 29 per cento, davanti a Clinton e dietro a Trump di un solo punto.
https://twitter.com/mckaycoppins/status/788025474274516992
Molti giornali americani hanno legato l’ascesa di McMullin nei sondaggi al cattivo momento di Donald Trump, e più in generale al profilo della sua candidatura. Trump è un milionario di New York che in passato è stato vicino ai Democratici; McMullin ha lavorato per un’agenzia federale per dieci anni, ed è sempre stato vicino ai Repubblicani. Un tempo Trump appoggiava il diritto all’interruzione di gravidanza (anche se da qualche anno ha cambiato idea); nel suo programma, McMullin scrive che «una cultura che finanzia gli aborti su richiesta sta agli antipodi di quella americana». Trump è un personaggio esplicitamente sopra le righe, che dice e propone cose radicali ignorando estesi pezzi del partito Repubblicano; McMullin sta cercando di parlare anche agli elettori che non intendono votarlo (in un recente tweet ha parlato positivamente del movimento per i diritti degli afroamericani Black Lives Matter). Trump è presbiteriano, cioè protestante; McMullin è mormone. «Ho voglia di votare per una persona virtuosa e onesta», ha sintetizzato al New York Times un’elettrice dello Utah che ha assistito a un recente comizio di McMullin.
Cosa può succedere?
Naturalmente McMullin non ha nessuna speranza di competere con Trump o Clinton fuori dallo Utah, uno stato che ha un elettorato particolarissimo e poco rappresentativo della popolazione americana. McMullin è praticamente sconosciuto a livello nazionale – nei rarissimi sondaggi che chiedono di lui, ottiene l’uno o il due per cento delle intenzioni di voto – e ha una campagna praticamente squattrinata, in confronto a quelle di Trump e soprattutto di Clinton. Nella migliore delle ipotesi McMullin potrebbe sottrarre voti a Trump o persino vincere nello Utah. Sarebbe una notizia notevole: l’ultimo candidato indipendente a vincere uno stato fu l’ex governatore Democratico dell’Alabama George Wallace, che alle elezioni del 1968 ne vinse cinque con una campagna elettorale molto populista e razzista.
Un eventuale buon risultato di McMullin sarebbe inoltre un grosso guaio per Trump, che data l’attuale situazione politica americana ha molti meno voti “certi” di Clinton: gli stati che voteranno sicuramente Democratico sono una ventina, alcuni dei quali molto popolati, mentre Trump può contare sul sostegno certo “soltanto” di una quindicina di piccoli stati del sud o rurali. E fino a qualche giorno fa, lo Utah era uno di questi: nel caso estremo di una vittoria di McMullin, l’eventuale perdita dei suoi 6 grandi elettori sarà un problema (per vincere le elezioni un candidato deve raggiungere 270 “grandi elettori”, che ciascuno stato assegna – in proporzione al numero dei propri abitanti – al candidato che ottiene più voti).
È comunque un’ipotesi ancora piuttosto fragile: per rendere possibile la vittoria di McMullin dovrebbero succedere altre cose molto rilevanti per gli elettori dello Utah, come ad esempio un inciampo di Trump su una questione religiosa o un endorsement a McMullin del popolare ex candidato Repubblicano Mitt Romney, che è mormone, molto popolare nella destra religiosa e notoriamente ostile a Trump (una fonte di Politico ha detto che Romney sta effettivamente valutando se appoggiare o meno McMullin).
L’ipotesi-fantapolitica di FiveThirtyEight
Qualcuno si è spinto ancora oltre, fino a immaginare la possibilità che McMullin diventi presidente degli Stati Uniti. Ne ha scritto il giornalista Benjamin Morris in un recente articolo su FiveThirtyEight, che è diventato uno dei più letti del sito durante tutta la campagna elettorale.
Semplificando molto, lo scenario immaginato da Morris è questo: McMullin vince nello Utah, e né Trump né Clinton riescono a ottenere i 270 grandi elettori necessari per essere nominato presidente. A quel punto la legge americana prevede che il presidente sia scelto dalla Camera fra i tre candidati più popolari – e quindi Clinton, Trump e McMullin – mentre il Senato riceverebbe l’incarico di scegliere il vicepresidente fra i due candidati vicepresidenti più popolari. Alla Camera i negoziati sarebbero sostanzialmente bloccati, fra le decine di Repubblicani che non ne vogliono sapere di scegliere Trump e i Democratici che starebbero sostanzialmente a guardare. A quel punto il Senato avrà già già deciso chi eleggere fra Tim Kaine, il candidato vicepresidente di Hillary Clinton, e Mike Pence, il candidato vice di Donald Trump. La loro elezione dipenderebbe dal partito che controlla il Senato: se fossero i Democratici, Kaine sarebbe nominato vicepresidente. Se fossero i Repubblicani, verrebbe nominato Pence. Una volta nominato il vicepresidente, il partito del suo avversario avrebbe tutto l’interesse per nominare McMullin presidente: se i Repubblicani controllassero il Senato e Pence fosse nominato vicepresidente, i Democratici preferirebbero nominare McMullin a presidente piuttosto che ritrovarsi Trump. L’ipotesi, nel suo essere irrealistica, vale anche a parti inverse.
Stiamo parlando di uno scenario molto, molto, molto improbabile. Secondo il modello di Nate Silver, la probabilità che nessuno dei due candidati ottenga i 270 grandi elettori è dello 0,3 per cento. La vittoria di McMullin in Utah invece è data attualmente al 6-7 per cento. In caso di vittoria di McMullin nello Utah e di situazione “bloccata” al Congresso, Nate Silver stima che McMullin avrebbe una possibilità su 10 di diventare presidente. Combinati tutti questi dati, attualmente McMullin ha lo 0,002 per cento di possibilità di diventare presidente (una ogni cinquantamila simulazioni).