Chi ha ucciso Giulio Regeni?
Alexander Stille ha ricostruito sul Guardian quello che sappiamo dell'uccisione otto mesi fa al Cairo del 28enne italiano, per la quale non c'è ancora un colpevole
«Esco». Alle 19.41 del 25 gennaio 2016 Giulio Regeni scrisse questo messaggio alla sua fidanzata, mentre stava raggiungendo a piedi la fermata della metropolitana più vicina a casa sua. Regeni, dottorando italiano di 28 anni, viveva in un appartamento nel quartiere Dokki di Giza, una città a una ventina di chilometri a sud-ovest del Cairo, la capitale dell’Egitto. Quella sera Regeni stava andando alla festa di compleanno di un amico, organizzata vicino a piazza Tahir, la piazza più importante del Cairo. Regeni era stato a casa tutto il giorno, anche perché il 25 gennaio non era una data come le altre: era il quinto anniversario della rivoluzione del 2011, quella che portò alla caduta di Mubarak e alla successiva ascesa dei Fratelli Musulmani. La situazione non era tranquilla, come tutti i 25 gennaio dal 2011 ad oggi: nelle ore precedenti la polizia egiziana aveva compiuto migliaia di perquisizioni per bloccare iniziative e proteste contro il governo del presidente Abdel Fattah al Sisi. Il quartiere un po’ periferico dove viveva Regeni, comunque, non ne era stato coinvolto.
Quello che successe dopo non è ancora del tutto chiaro. Regeni scomparve quella sera nel tragitto da casa sua al posto dove era stata organizzata la festa con gli amici. Secondo un’inchiesta di Reuters pubblicata il 21 aprile, Regeni fu prelevato dalla polizia egiziana vicino alla fermata della metro Nasser: fu portato a una stazione di polizia e fu tenuto lì per mezz’ora e poi trasferito in una struttura vicina gestita dalla Sicurezza Nazionale. Il governo egiziano ha sempre negato di averlo avuto in custodia quella sera, ma diverse indagini e inchieste giornalistiche successive hanno dato sempre più credito all’ipotesi di un coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani. L’intera storia, dai giorni precedenti alla scomparsa di Regeni fino alle indagini ancora in corso, è stata ricostruita dal giornalista Alexander Stille in un lungo articolo pubblicato sul Guardian.
Cosa successe prima della scomparsa di Regeni
Regeni era un dottorando dell’Università di Cambridge che si trovava al Cairo per fare delle ricerche sui sindacati indipendenti dei venditori di strada, un tema politico molto delicato in Egitto. Da diverso tempo il regime di al Sisi cercava di limitare la presenza dei venditori di strada, una delle categorie che per prime si unirono alle proteste del 2011 contro Hosni Mubarak e che appoggiarono l’elezione di Mohammed Morsi, il presidente esponente dei Fratelli Musulmani destituito nel 2013 da un colpo di stato organizzato proprio da al Sisi. Il regime aveva anche infiltrato tra i venditori di strada dei suoi informatori, per captare qualsiasi volontà rivoluzionaria.
Regeni cominciò a studiare i venditori di strada adottando un approccio conosciuto come “ricerca partecipata”, un metodo che prevedeva il fatto di trascorrere molto tempo per strada. Alcune inchieste giornalistiche hanno mostrato che potrebbe essere stato questo metodo a causargli dei guai. Una data che sembra importante nella ricostruzione di quello che successe dopo è l’11 dicembre 2015, quando Regeni partecipò a un incontro pubblico e autorizzato sui sindacati indipendenti. Accaddero due cose: la prima è che Regeni fu impressionato dagli argomenti e dall’energia emersi dalla riunione, e ci scrisse sopra un articolo con frasi abbastanza forti; la seconda è che durante l’incontro a un certo punto gli si avvicinò una donna con il velo, e lo fotografò. Regeni non era tra gli oratori e l’episodio lo mise in agitazione, raccontarono alcuni amici. Poi successe un’altra cosa. Nell’autunno 2015 Regeni aveva ottenuto un finanziamento di 10mila sterline da una fondazione britannica che si occupa di progetti di sviluppo. Era una somma di denaro che Regeni avrebbe potuto usare come sostegno per le ricerche del suo dottorato e come aiuto per le persone che stava studiando. Ne parlò con Mohamed Abdallah, uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, che però si mostrò interessato più ai soldi che al progetto in sé. Il 7 gennaio Abdallah denunciò Regeni alle autorità egiziane. Dopo la morte di Regeni, Abdallah raccontò a un giornale egiziano di averlo fatto per proteggere il suo paese, ma insistette nel dire di non essere una spia.
Le indagini sulla morte di Regeni
Dopo il 25 gennaio, prima che venisse ritrovato il corpo di Regeni passarono nove giorni. Il 3 febbraio un uomo alla guida di un furgone partito dal Cairo e diretto ad Alessandria forò all’altezza di Giza: si fermò sul lato della strada per cambiare la ruota e vide il corpo. I primi esami svolti in Egitto da un esperto forense mostrarono segni di tortura e fecero parlare di una “morte lenta”. Ma il vice-capo delle indagini a Giza ritrattò tutto e disse che probabilmente Regeni era morto in un incidente stradale. Questa ricostruzione fu smontata anche grazie all’autopsia eseguita in Italia. Il medico legale egiziano aveva già effettuato un’autopsia sul corpo di Regeni e aveva concluso che la morte era stata causata da un colpo in testa. L’esame italiano dimostrò invece che Regeni era stato colpito diverse volte sulla testa, non una sola, e che comunque la causa della morte era un’altra: la rottura del collo. Regeni aveva anche altri tagli, ematomi e abrasioni fatti in momenti diversi, mostrava delle fratture nelle mani e nei piedi e aveva i denti rotti. Era stato torturato, più di una volta: «Sembra che i suoi aguzzini avessero scolpito delle lettere nella sua carne, una pratica usata dalla polizia egiziana», ha scritto Stille. Gli esami mostrarono che Regeni era morto tra le 10 di sera dell’1 febbraio e le dieci di sera del giorno successivo.
Mostafa Suleiman, il sostituto procuratore del caso Regeni, parla ai giornalisti al Cairo il 9 aprile 2016 (MOHAMED EL-SHAHED/AFP/Getty Images)
Fin dall’inizio delle indagini, gli italiani dovettero scontrarsi con la reticenza degli egiziani nel collaborare: l’autopsia non fu un caso isolato. Al team di investigatori italiani arrivati al Cairo per le indagini fu permesso per esempio un accesso molto limitato ai testimoni: potevano interrogarli, ma solo per pochi minuti e in presenza della polizia egiziana. Altra cosa: gli investigatori egiziani ritardarono il sequestro del video girato dalle telecamere a circuito chiuso della stazione della metropolitana in cui Regeni aveva usato per l’ultima volta il suo cellulare. Quando si decisero fu troppo tardi: le registrazioni erano già state coperte con nuove immagini. Stille scrive che gli investigatori italiani dovettero in qualche modo fare da loro. Tra le altre cose andarono al funerale di Regeni a Fiumicello, il suo paese di origine, in provincia di Udine. Fu «una specie di Nazioni Unite in piccolo»: c’erano amici che arrivavano dagli Stati Uniti, dove Regeni aveva studiato per un periodo nella high school; dal Regno Unito, dove aveva fatto l’università; dalla Germania e dall’Austria, dove aveva lavorato; e dall’Egitto, dove viveva dal novembre 2015 per fare le sue ricerche di dottorato. Gli investigatori italiani trovarono ampia collaborazione tra gli amici e la famiglia di Regeni e riuscirono a riempire dei pezzi di storia che la polizia egiziana si ostinava a non spiegare.
Dopo la diffusione dei risultati dell’autopsia italiana, l’Egitto abbandonò la tesi dell’incidente stradale – non più sostenibile, a quel punto – e cominciò a parlare in maniera molto fumosa dell’esistenza di una grande cospirazione. All’inizio di marzo un uomo di nome Mohammed Fawzy raccontò di avere visto Regeni il pomeriggio del giorno prima della sua scomparsa: disse che stava litigando furiosamente con un altro straniero vicino al consolato italiano al Cairo. Il 13 marzo Fawzy, durante un programma televisivo egiziano, sostenne che il governo italiano era a conoscenza dell’identità dell’assassino di Regeni, ma che stava nascondendo le prove. Disse anche che chiunque avesse ucciso Regeni voleva sabotare i rapporti commerciali tra Italia ed Egitto.
Tre giorni dopo Repubblica pubblicò un’intervista al presidente egiziano al Sisi, che diede ampio spazio alla teoria della cospirazione. Sisi accusò dell’omicidio i suoi nemici, quelli che secondo lui volevano isolare l’Egitto, colpire l’economia locale e interrompere la guerra del governo egiziano contro l’estremismo e il terrorismo. Quelli che volevano rovinare i rapporti di amicizia con il governo italiano di Matteo Renzi. L’intervista di Repubblica fu molto criticata – si disse che era stata troppo morbida e che non aveva affrontato quasi per niente la questione dei depistaggi compiuti da funzionari egiziani nelle indagini sulla morte di Regeni –, mentre la testimonianza di Fawzy fu smontata nel giro di poco tempo. Gli investigatori italiani scoprirono che il pomeriggio del 24 gennaio Regeni era a casa: stava parlando con la sua fidanzata su Skype e insieme stavano guardando lo stesso film in streaming. I tabulati telefonici confermarono poi che Fawzy aveva mentito: non si trovava nella zona del consolato italiano, nell’ora in cui aveva sostenuto di avere visto Regeni litigare con un altro straniero. E anche la teoria della cospirazione fu in parte abbandonata (in parte, non del tutto: d’altronde un regime autoritario come quello di al Sisi sopravvive e si autolegittima anche grazie al continuo ricorso a una minaccia incombente e grave).
Poi, il 24 marzo, ecco una nuova teoria. Il ministro degli Interni egiziano scrisse su Facebook che il caso era risolto: i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». Il governo diffuse le foto del passaporto di Regeni, della sua carta d’identità italiana, di una carta di credito e del suo tesserino dell’Università di Cambridge, tutto materiale che secondo gli agenti era stato trovato in possesso del gruppo: dovevano essere prove per sostenere l’ultima teoria del governo, ma finirono per essere l’ennesimo elemento che sembrava mostrare un qualche tipo di coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane. Venne fuori che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro. E c’erano altre cose che non tornavano: per esempio le autorità egiziane non seppero spiegare il motivo per cui dei criminali comuni avrebbero dovuto torturare Regeni per una settimana intera prima di ucciderlo. «Mi spiace, io non ci credo», scrisse l’ex primo ministro Enrico Letta su Twitter.
I documenti e la carta di credito di Giulio Regeni che la polizia egiziana ha sostenuto fossero stati trovati in possesso dei membri di una banda criminale. L’immagine è stata diffusa dal ministro degli Interni egiziano il 24 marzo 2016 (Egyptian Interior Ministry via AP)
Da allora gli investigatori italiani hanno continuato a indagare sulla morte di Regeni, ma senza arrivare a conclusioni definitive. Dopo che il governo ha abbandonato anche la teoria della banda criminale, la situazione si è un po’ bloccata. Ad aprile Repubblica ha pubblicato delle email anonime secondo le quali il sequestro di Regeni fu ordinato da Khaled Shalabi, uno degli uomini che fanno parte del gruppo di investigatori egiziani che si sta occupando del caso. Regeni sarebbe stato consegnato ai servizi segreti interni egiziani, e poi trasferito ai servizi segreti militari, dai quali sarebbe stato ucciso. Diversi osservatori hanno però messo in dubbio la veridicità delle email, che sono parse un ennesimo tentativo di depistaggio. A settembre per la prima volta gli investigatori egiziani hanno ammesso che Regeni fu indagato dalla polizia egiziana: le indagini durarono solo tre giorni, hanno sostenuto gli egiziani, durante i quali non fu riscontrata «alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale».
Nel suo articolo sul Guardian, Stille dà credito alla teoria secondo la quale l’uccisione di Regeni è stata il risultato del contesto generale di paranoia in cui è immerso l’Egitto da quando Abdel Fattah al Sisi è diventato presidente. Negli ultimi tre anni, al Sisi ha trasformato l’Egitto in un regime autoritario molto simile a quello che c’era prima delle Primavere Arabe, guidato da Hosni Mubarak. Il regime ha limitato le libertà personali e di stampa, la situazione dei diritti umani è notevolmente peggiorata e l’idea dell’esistenza di una qualche terribile cospirazione organizzata dall’esterno si è diffusa in molti strati della società egiziana. I casi di arresti di giornalisti e accademici, anche stranieri, erano già conosciuti prima della morte di Regeni e sembrano essere continuati anche dopo (due casi esemplari: i problemi di Reuters e la storia di un ragazzo italiano arrestato al Cairo). Oggi la stragrande maggioranza degli osservatori e analisti pensa che dietro la morte di Regeni ci sia qualche pezzo del regime egiziano. Stille ha scritto:
«La morte di Regeni è un mistero nascosto in bella vista: sembra inspiegabile, le torture brutali e la sua uccisione riflettono la scomparsa della democrazia in Egitto, la sottrazione forzata di libertà e protezioni già limitate, la violenta repressione del dissenso, l’aumento della tortura e le sparizioni forzate, la tendenza a dare la colpa per i problemi del paese a cospirazioni organizzate all’estero. In questo mondo così chiuso, Giulio Regeni, con la sua capacità di parlare cinque lingue, il suo cellulare pieno di contatti egiziani e stranieri, poteva sembrare una spia; e la polizia, in un sistema con pochi o nessun obbligo di rispondere delle proprie azioni, potrebbe avere commesso degli errori sconsiderati»