“Amanda Knox”, da oggi su Netflix
Un documentario online da oggi è considerato il miglior racconto finora sull'assassinio e il processo di Perugia: cosa se ne dice
Amanda Knox è un nuovo documentario di Netflix disponibile da oggi, venerdì 30 settembre: è diretto dai registi statunitensi Rod Blackhurst e Brian McGinn (di 35 e 31 anni) e parla di un noto caso di cronaca e del conseguente processo che si tenne a Perugia, e che per anni cercò di capire chi aveva ucciso la studentessa britannica Meredith Kercher nella notte tra l’1 e il 2 novembre 2007. Il processo è terminato nel marzo 2015, quando Amanda Knox e Raffaele Sollecito – che si erano conosciuti cinque giorni prima della morte di Kercher, coinquilina di Knox – sono stati assolti in modo definitivo dalla Corte di Cassazione, dopo che in tre precedenti momenti erano stati condannati, assolti e poi di nuovo condannati. La Corte di Cassazione confermò invece la condanna di Rudy Guede, che è in carcere e sta scontando una pena di 16 anni per aver ucciso Kercher.
Amanda Knox e Raffaele Sollecito (Netflix)
Blackhurst e McGinn hanno passato alcune settimane a Perugia e hanno seguito il processo per cinque anni – dal 2011 in poi – intervistando alcuni dei principali protagonisti della vicenda. Il loro documentario è fatto soprattutto di interviste con Knox e Sollecito, e con Giuliano Mignini – il pubblico ministero che si occupò del caso – e Nick Pisa, un giornalista freelance che fu tra i primi a scriverne e che andò avanti per anni, con molti scoop – molti dei quali poi smentiti – e tante prime pagine, soprattutto sul tabloid britannico Daily Mail. Nel documentario ci sono anche altre interviste ma Knox, Sollecito, Mignini e Pisa sono i quattro “personaggi” principali.
Giuliano Mignini e Nick Pisa (Netflix)
McGinn ha detto che il titolo avrebbe anche potuto essere tra virgolette – “Amanda Knox” – perché il documentario non è su di lei ma sulla sua storia, «che è venti volte più interessante». Il documentario è tecnicamente ben fatto e con molte immagini inedite, alcune ottenute dagli archivi dei processi, altre perché fornite dagli intervistati. Ricostruisce fasi e fatti, riportando opinioni e punti di vista: per vederlo è utile conoscere qualcosa del caso, dopo averlo visto è probabile che resti la voglia di approfondirlo ancora di più. La frase che sarà più citata, e che già si sente nel trailer, la dice Knox: «O sono una psicopatica travestita da persona normale, oppure sono come voi».
La storia
Knox e Kercher, poco più che ventenni, erano arrivate a Perugia per studiare, e si erano conosciute lì, perché coinquiline. Alla fine dell’ottobre 2007 Knox aveva conosciuto Sollecito, arrivato dalla Puglia, anche lui per studiare. I due si erano frequentati diventando, per loro definizione, una coppia. La mattina dell’1 novembre 2007 Kercher fu trovata morta nella sua stanza: la polizia arrivò lì la mattina successiva, dopo una telefonata di Sollecito, che disse di aver trovato cose sospette nell’appartamento (un vetro rotto, macchie di sangue). Kercher fu trovata nuda, coperta da un piumone, e si stabilì che era stata uccisa con un coltello.
Le indagini e i successivi processi furono estremamente complicati: ci furono deposizioni poi ritrattate, piste seguite poi rivelatesi false, dubbi su certe prove e sul modo in cui furono fatte alcune indagini e perizie scientifiche e, a rendere il tutto ancora più incasinato, una grande e costante attenzione di tv e giornali – italiani e stranieri – a tutto ciò che succedeva. C’erano – e il documentario ne parla – tutti gli elementi per rendere interessante l’omicidio e le indagini: i protagonisti stranieri e giovani e ben presto si iniziò anche a parlare di componenti macabre e erotiche dell’omicidio (molte delle quali poi smentite o comunque mai davvero confermate).
Knox e Sollecito furono arrestati quattro giorno dopo la morte di Kercher, e il documentario ne spiega bene le dinamiche. Qualche giorno più tardi a casa di Sollecito fu trovato un coltello con le tracce del DNA di Kercher e Knox (il documentario spiega perché le tracce di Knox furono in seguito considerate una prova inattendibile). Oltre a Knox e Sollecito venne arrestato anche Patrick Lumumba Diya, che gestiva un pub in cui lavorava Amanda, e fu da lei accusato dell’omicidio. Dopo 14 giorni, il 20 novembre, Patrick Lumumba venne rimesso in libertà, ma lo stesso giorno fu arrestato Rudy Guede, ivoriano fermato in Germania: gli investigatori avevano individuato l’impronta di una sua mano su un cuscino accanto al cadavere della studentessa.
Due immagini dal documentario (Netflix)
Il 18 gennaio del 2009 iniziò il processo di primo grado contro Knox e Sollecito, che vennero condannati a 25 e 26 anni: le motivazioni della sentenza dicevano che Knox e Sollecito avevano ucciso spinti da un movente «erotico, sessuale, violento». Guede, che nel frattempo aveva chiesto e ottenuto il rito abbreviato, venne condannato a 16 anni per aver «concorso pienamente». Nel 2011 Knox e Sollecito furono assolti e scarcerati, dopo che una perizia indipendente aveva smontato quanto ipotizzato dalla polizia scientifica durante il processo di primo grado (dicendo, tra le altre cose, che il coltello non poteva essere una prova davvero attendibile). Knox tornò a Seattle, negli Stati Uniti. Nel marzo 2013 la Corte di Cassazione annullò quella sentenza, ordinando la ripetizione del processo e il suo trasferimento da Perugia a Firenze per «questioni procedurali». Poi sono arrivate le nuove condanne, i ricorsi dei loro legali e la sentenza definitiva della Cassazione. Amanda Knox restava comunque condannata a 3 anni di carcere per avere ingiustamente accusato dell’omicidio Patrick Lumumba, estraneo ai fatti. La condanna risultava però già scontata, perché compresa nel periodo che Amanda Knox aveva passato sotto custodia cautelare in carcere, dal 2007 al 2011.
Amanda Knox
Il documentario di Blackhurst e McGinn dura poco più di un’ora e mezza e nei primi minuti ci sono alcune immagini girate dai poliziotti che andarono sul luogo del delitto, mai mostrate prima. Si sente anche la telefonata con cui Sollecito chiese alla polizia di andare sul posto. Il film racconta tutta la storia in ordine cronologico, presentando diversi punti di vista e sottolineando più volte come e quanto giornali e tv seguirono il caso, facendolo diventare quello che qualcuno definì «il processo del secolo».
I registi hanno spiegato di essersi interessati alla vicenda nel 2011 – stupiti dal fatto che fosse «ancora sulle prime pagine, anche dopo quattro anni» – e di aver cercato di parlare con tutti gli interessati. Mancano però interviste con la famiglia di Kercher, che si è rifiutata. I due personaggi meno noti a chi non ha seguito il caso sono Mignini e Pisa, e il loro protagonismo è un tratto piuttosto impressionante del film. Mignini racconta di essere appassionato di Sherlock Holmes, di essere profondamente credente e di aver ritenuto quasi subito che l’assassino dovesse essere una donna perché secondo lui un uomo non avrebbe coperto la sua vittima con un piumone; in generale si mostra molto interessato alla parte potenzialmente erotica e morbosa del caso e ha certezze piuttosto perentorie. Pisa – che ora lavora per il Sun, un altro tabloid – dice invece cose come «per un giornalista il suo nome in prima pagina è come fare sesso» o «certo, diverse notizie non si sono rivelate vere, ma siamo giornalisti e riportiamo quel che ci viene detto. Se avessi perso tempo a verificare avrei dato un vantaggio alla concorrenza».
Rod Blackhurst e Brian McGinn
I registi hanno detto di aver fatto il loro documentario per mostrare cose e fare ordine, non per sostenere una tesi e difendere o accusare qualcuno; dicono di aver cercato e aspettato i protagonisti, incontrandoli più volte negli anni, aspettando che fossero loro a chiamarli quando avevano nuove cose da raccontare. Prima di Amanda Knox, Blackhurst aveva diretto Here Alone, un film horror e fantascientifico; McGinn è invece uno dei registi di Chef’s Table, la serie di Netflix sui migliori chef del mondo. Hanno parlato di Amanda Knox e di Amanda Knox con il Post.
McGinn ha detto che «la storia è una tragedia» e il fatto che Pisa nel documentario la definisca «la storia perfetta» ha a che fare con i media: sono stati loro a farla diventare sempre più grande. McGinn ha detto che «è successo perché le persone ne sono rimaste affascinate, e ha questa piccola e romantica città italiana. Tutti noi fuori dall’Italia abbiamo una certa idea dell’Italia, e poi è diventata la storia di una battaglia tra due giovani coinquiline, e tutti gli elementi che rendono popolare una storia». Per McGinn la cosa «ha fatto andare tutti fuori strada, perdendo di vista la tragedia e le persone». Secondo lui la sentenza di Cassazione mostra «come divenne davvero difficile capire la verità perché chi doveva capire e decidere si trovò sotto una grande pressione mediatica».
McGinn e Blackhurst hanno spiegato che nel realizzare il loro documentario sono partiti dalla fine, andando all’indietro provando a capire la causa o la premessa di ogni cosa. Sono anche stati gli unici a riprendere il momento in cui, da Seattle, Knox ascolta la sentenza di Cassazione che la assolveva, chiamando poco dopo Sollecito. Blackhurst ha detto che quasi tutte le persone intervistate all’inizio erano restie – «nessuno di loro aveva chiesto di essere in quella posizione, con una telecamera puntata davanti, in modo così intimo» – poi «tutti hanno capito che volevamo contestualizzarli, far capire qualcosa in più su di loro». McGinn ha detto: «Le nostre interviste non erano interrogatori e nemmeno interviste da giornalisti. Erano guidate da ciò di cui le persone volevano parlare» e «a un certo punto tutti hanno smesso di pensare a come volevano mostrarsi e hanno solo iniziato a parlare, e questo era l’obiettivo».
«Sia Amanda Knox che Giuliano Mignini ci hanno detto che dopo aver visto il film hanno scoperto nuove cose sull’altro», vedendolo come «un essere umano, non un personaggio, un antagonista, qualcuno contro cui stavano combattendo», ha detto Blackhurst. McGinn invece ha raccontato che Amanda – che a loro ha detto di voler un giorno tornare in Italia – «ha notato come era più giovane in alcune delle prime riprese». I due registi hanno anche detto che «paradossalmente» nessuno di loro gli ha mai chiesto cosa ne pensavano di tutta la vicenda; «Megnini voleva sempre parlarci di Trump» ha detto McGinn e «quando non erano davanti alla telecamera tutti volevano parlare di altre cose», «perché sono persone molto più sfaccettate e complesse» di quanto si pensi. A proposito di Trump: nel documentario lo si vede in un breve filmato, mentre invita tutti a boicottare l’Italia per via del caso Knox.
Parlando di Pisa – il personaggio più “personaggio” del film – i due hanno detto di averne apprezzato l’onestà e di averlo scelto «perché nessuno aveva intervistato il giornalista» in questa storia, «perché era il re dello scoop ma anche perché rappresentava un’interessante evoluzione del giornalismo», in un momento in cui erano appena arrivati i social network e, ha detto McGinn, «mentre i soldi andavano via dal giornalismo tradizionale reporter come lui iniziarono a scrivere per decine di giornali, confondendo il confine tra giornalismo tradizionale e cose da tabloid».
Pisa è uno che in certi momenti del documentario dice frasi che potrebbero far ridere, con amarezza. I registi hanno però detto che la loro frase preferita è di Valter Biscotti, avvocato di Guede: dice che quando in italia c’erano già i tribunali, negli Stati Uniti «disegnavano ancora i bisonti sulle caverne». McGinn ha detto che quando gli hanno mostrato il film finito era molto orgoglioso di quella frase, e ha voluto risentirsi una seconda volta mentre la diceva.
Valter Biscotti (Netflix)
Le recensioni
Benjamen Lee del Guardian ha dato al film quattro stelle su cinque: ha scritto che «alcuni potrebbero essere frustrati dall’assenza di nuove informazioni su di un caso che è già stato documentato più che bene, ma il film aggiunge profondità a quello che già sappiamo»; di Knox ha detto che è «un macabro personaggio, inconoscibile in modo spaventoso», al centro di un film «bilanciato con attenzione». Secondo un altro articolo del Guardian, scritto da Charlie Lyne, il documentario fa capire che Knox «passò quattro anni in prigione soprattutto per non essere stata capace di soffrire in silenzio, così come avrebbe voluto un gruppo di uomini di mezza età». Si parlò molto, infatti, di Sollecito e Knox, che ripresi fuori dalla casa dov’era avvenuto l’omicidio si davano baci e non piangevano. Nel documentario Mignini li definisce «distonici» rispetto al contesto.
Judy Bachrach ha scritto su Vanity Fair che il film «spiega più cose di un decennio di copertura giornalistica» e che McGinn e Blackhurst sono stati capaci di andare «al centro delle cose». Owen Gleiberman ha invece scritto su Variety che il documentario «mostra la parte colpevole: non era Amanda Knox, era il giornalismo da tabloid» (che però, comunque, non ha ucciso Kercher). Darren Ruecker ha scritto su We Got This Covered che «per com’è fatto bene e per come si fa ben vedere, Amanda Knox è una cosa da vedere per forza; per come mostra i meccanismi della giustizia e della cultura dei media, è una cosa fondamentale da far vedere, e di cui parlare». Amanda Knox è piaciuto molto meno a Kate Erbland di IndieWire: «È una pubblicità di 92 minuti per informarsi di più sul caso, come cosa a sé fa venire voglia che qualcuno faccia qualcosa di più grande e più bello».