“Change.org” serve a qualcosa?
Se lo chiede Pagina99, riflettendo sui suoi funzionamenti e sulle cose per cui firmiamo
Su Pagina99 il giornalista Paolo Bottazzini si chiede a che cosa serve Change.org, il sito dove si possono organizzare petizioni online e raccogliere firme. Secondo Bottazzini la risposta è che serve a poco e in alcuni casi è dannoso. La ragione sarebbe la natura commerciale di Change.org. Il fatto che si tratti una società privata che fa profitti, scrive Bottazzini, contribuisce a premiare le petizioni sulla base di “logiche pubblicitarie”. Il risultato è che gran parte delle petizioni sono sciocche o poco importanti, quando non addirittura pericolose, come quelle che chiedono di abolire l’obbligo di vaccinazione.
Dal 2005 i social media con maggiore propensione all’ironia, come Twitter, hanno divulgato l’espressione “Problema del Primo Mondo”, fino a cingerla di un hashtag e a renderla popolare nello slang dei giovani (possibilmente pronunciato con due g). L’Oxford Dictionary ha accolto la formula nel dicembre 2012, chiarendo in modo ufficiale il significato della critica alle petizioni aperte su Change.org. Esigere che il lottatore di wrestling Roman Reigns cambi la sua armatura perché offende le regole e la dignità dello sport (!) da lui praticato; cambiare il nome della festa del Columbus Day nelle università Usa, perché discrimina gli indigeni; chiudere il museo torinese dedicato a Cesare Lombroso perché razzista e contro i meridionali; pretendere che i ragazzi all’interno dell’Università dell’Arkansas indossino il casco quando sono alla guida di mezzi con due ruote – tutti questi sono al contempo esempi di problemi del Primo Mondo, e mozioni proposte sulla piattaforma sociale di Change.org.
Secondo il prestigioso dizionario britannico, il taglio ironico dell’espressione nel gergo dei nativi digitali, denota un problema poco serio, in confronto alle difficoltà che attraversano i Paesi avanzati. Per primo è stato Jenn Harris sul Los Angeles Times a mettere in ridicolo molte istanze elencate sul social network californiano. Il titolo dell’articolo, ormai vecchio di tre anni, illustra la questione: i vegani vogliono troppo Starbucks Pumpkin Spice Lattes – questo è un problema del Primo Mondo. Diversi attacchi sono seguiti a quello di Harris, sapendo bene che un canale attraverso cui passano più di cinquecento rogazioni al giorno non può aspirare a essere l’ampolla in cui si versa il distillato dell’intelligenza del mondo. Al massimo, può assumere la forma di un repertorio, dell’archivio delle lagnanze nel pianeta, e dell’anagrafe dei loro sostenitori. È proprio così che la pensa anche Change.org, e su questa visione ha fondato il suo modello di business.
La società che ha varato dieci anni fa la piattaforma e che continua a mantenerla non è una non profit. Change.org è stata fondata a San Francisco da Ben Rattray, che ha perseguito l’obiettivo di iscrivere la sua impresa nella comunità delle Certified B Corporations TM. In altre parole, tutte le operazioni sono gestite da una società privata che può comportarsi come tutti gli altri giganti della Silicon Valley, chiedendo una remunerazione per conquistare maggiore visibilità sul portale e sulle sue pagine aperte su Facebook e su Twitter; può raccogliere e rivendere i dati personali degli utenti registrati; non distribuisce privilegi sulla base della rilevanza sociale, politica o economica, delle petizioni, ma decide sulla base dell’interesse finanziario. Le accuse sono tutte realistiche, e assumono l’importanza che merita il silos di dati derivabili dalle informazioni personali sugli oltre 160 milioni di iscritti, distribuiti in tutti i paesi del mondo.