Da dove vengono i libri tascabili
Nonostante il nome, le dimensioni non c'entrano: sono quelli su cui gli editori guadagnano di più, e nel tempo la loro funzione è molto cambiata
di Giacomo Papi – @giacomopapi
Le case editrici guadagnano soprattutto sulle seconde edizioni economiche, cioè sui cosiddetti libri tascabili. Produrli costa meno e, quindi, il guadagno è molto più alto: la redditività di un tascabile è intorno al 40-45 per cento contro il 20-25 delle prime edizioni. Il risparmio non è tanto dovuto a fattori materiali – la qualità della carta, della rilegatura o delle copertine non rigide – quanto ai costi editoriali che sono molto minori. L’editore non deve pagare traduzioni, revisioni e correzioni di bozze, ha costi di produzione più bassi, ma soprattutto paga meno gli autori: non ci sono costi per l’anticipo – quindi gli editori rischiano meno se il libro non vende – e le royalties, i diritti, sono più bassi – intorno al 5-6 per cento rispetto al 9-12 delle prime edizioni. Per questa ragione, per il bilancio di un grande e medio editore – è raro che i piccoli abbiano seconde edizioni economiche – l’andamento dei tascabili è fondamentale. Oltre a rappresentare la politica di catalogo dell’editore, dunque la base della sua forza, i tascabili portano soldi e garantiscono la liquidità necessaria per produrre nuove edizioni.
Negli ultimi decenni la proliferazione di collane in brossura – cioè con la copertina di carta, non di cartone – e i cambiamenti del pubblico hanno reso molto meno chiara la distinzione tra prime e seconde edizioni economiche, generando alcuni paradossi. «I confini sono molto meno netti», dice Giancarlo Ferretti, critico letterario e storico dell’editoria. «Ma nell’elenco dei più venduti ci sono ancora quasi esclusivamente prime edizioni e questo significa che il mercato è ancora dominato dalle novità».
La società di rilevazioni Gfk calcola che nel 2015 in Italia le novità abbiano fatturato 106 milioni di euro, contro i 26 delle edizioni economiche. Ma oggi la qualità di un tascabile non è necessariamente molto più bassa di quella della prima edizione. Un esempio: la qualità della carta e della rilegatura di una prima edizione pubblicata da Einaudi Stile libero è appena superiore, e solo per la presenza di alette e per le dimensioni, dello stesso titolo ripubblicato l’anno dopo in ET, la collana tascabile di Einaudi, anche se il secondo avrà un prezzo di circa un terzo inferiore. Il piccolo formato oggi non significa necessariamente edizioni più povere. Anche perché nelle case di chi legge le librerie sono piene, e quindi non esiste più un pubblico da conquistare attraverso la politica di prezzi bassi. La Piccola Biblioteca Adelphi e Sellerio producono libri di piccolo formato di alta qualità. Almeno in linea teorica potrebbe nascere una collana di tascabili, cioè seconde edizioni, più preziosa della collana da cui pesca, per esempio con la copertina rigida e la carta più spessa – anche se ovviamente la redditività si abbasserebbe un po’. È quello a cui sta lavorando Mondadori per rilanciare gli Oscar, che sono in crisi, immaginando edizioni dei classici più forti più preziose e graficamente belle di quelle originali. L’altro paradosso è che i tascabili non definiscono più, nemmeno, il formato ridotto e che quindi, la parola “tascabile” ha perso il suo senso. Teoricamente potrebbero esistere tascabili giganti, o almeno più grandi delle prime edizioni. La forma dei libri è una variabile che riflette le trasformazioni sociali, in particolare l’emergere di nuove classi o di nuove fasce di lettori all’interno delle vecchie, e i cambiamenti delle abitudini di lettura. Intuire l’esistenza di un pubblico prima invisibile spinge a ripensare il libro sia come contenitore che come contenuto.
Piccola storia dei libri piccoli
Il termine “tascabile” viene dagli Stati Uniti: è una traduzione letterale che ha finito per orientare e confondere le idee sulla natura dell’oggetto, definendolo più in base alle dimensioni che ai costi e al pubblico. Pocket Books – appunto: libri da tasca – era una divisione che la Simon&Schuster, uno dei più importanti editori del mondo, lanciò nel 1939. Collane simili, però, esistevano già: la più importante fu quella dell’editore inglese Penguin, nata nel 1935 sull’esempio della tedesca Albatross Books, che pubblicava dal 1931. In Francia i Livres de Poche sarebbero arrivati nel 1952.
Ma libri di dimensioni ridotte esistono da – quasi – sempre, anche se non implicano necessariamente, anzi, bassi prezzi e alte tirature. L’uomo che inventò i libri piccoli si chiamava Aldo Manuzio, un grande editore e tipografo attivo a Venezia alla fine del Quattrocento che intuì l’esistenza di un pubblico pronto a utilizzare i libri in modo diverso da quello dominante fino ad allora, lettori meno orientati allo studio e più al piacere, affamati di storie da leggere ovunque e in qualunque posizione, non solo seduti al tavolo come gli eruditi, ma anche sprofondati in poltrona, sdraiati in un prato e, soprattutto, di notte a letto. Intuì, cioè, che la maneggiabilità e trasportabilità dei libri era una variabile funzionale importante, e che un formato ridotto sarebbe stato decisivo per allargarne l’utilizzo e, quindi, la vendita. Ma per attrarre il pubblico dei nuovi ricchi che gravitava intorno alle corti – lo stesso pubblico a cui si rivolse, per esempio, Ludovico Ariosto quando scrisse Orlando furioso – i libri dovevano essere concepiti come piccoli gioielli. Manuzio fece, cioè, un’operazione simile a quella che mezzo millennio più tardi Steve Jobs avrebbe fatto con gli iPhone.
Ma fino all’avvento dell’editoria industriale, cioè all’Ottocento, la dimensione dei libri non era direttamente legata al prezzo. Produrre un libro piccolo, senza macchine adatte e senza un pubblico abbastanza grande da giustificare altissime tirature, non costa meno che stamparne uno grande, anzi, e questo anche se richiede meno carta. I primi romanzi a basso prezzo rivolti esplicitamente a un pubblico popolare furono i penny dreadful, o penny horrible o penny blood, che uscirono in Inghilterra intorno al 1830.
Lo schema fu replicato in America qualche decennio più tardi con i cosiddetti dime-novels, romanzi da un dime, cioè 10 centesimi di dollaro, che erano venduti in edicola con cadenza periodica, per intercettare un pubblico nuovo di lavoratori che sapevano leggere e avrebbero potuto e voluto farlo per andare e tornare dal lavoro (infatti questo genere di editoria è catalogata anche come railway literature, letteratura da ferrovia). Le Beadle Series furono le prime e le più famose. Il primo romanzo Malaeska, the Indian Wife of the White Hunter di Ann S. Stephens, uscì il 9 giugno 1860, pubblicato da Erastus e, appunto, Irwin Beadle. In pochi mesi vendette 65 mila copie, rivoluzionando l’editoria per sempre. Ogni romanzo era sulle 100 pagine, il formato 16.5 per 10.8 centimetri, circa la metà di un A4, più o meno, quindi, come un libro normale di oggi. L’editoria diventava industriale e popolare, e i libri prodotti di massa, concepiti per un pubblico immenso, potenzialmente senza confini. Nel 1910 nacque la Collection Nelson con sedi a New York, Edimburgo, Londra, Parigi.
Educare e intrattenere le masse
In Italia le ragioni del capitalismo si sposarono, da subito, con una certa attitudine di derivazione socialista-cattolica. Così si puntò sulla diffusione della cultura e non soltanto sui profitti garantiti dall’intrattenimento. Il primo fu Sonzogno che intorno al 1865 lanciò le collane Biblioteca del popolo, Biblioteca universale, Biblioteca classica e Biblioteca romantica illustrata, specializzate in manuali tecnici, letteratura e amore. Naturalmente vinse l’amore. Negli anni Venti del Novecento Sonzogno si specializzò in collane popolari per signorine romantiche.
L’editoria popolare a basso prezzo si divarica in due rami: da una parte la letteratura di genere senza intenti educativi – come i gialli Mondadori, nati nel 1929, o gli Harmony – dall’altra, soprattutto in Italia, l’intento politico di educare le masse fa produrre libri di qualità, accessibili anche alle tasche dei poveri. Non sempre i poveri avevano i gusti immaginati dagli editori. Dice Ferretti: «Negli anni Trenta Bompiani vara la collana Corona. Elio Vittorini, che la dirigeva, sosteneva di ispirarsi a Sonzogno, ma non era una collana per niente popolare. Pubblicava autori poco famosi, o faceva operazioni geniali, ma raffinatissime, come ripubblicare un solo volume della Storia dei musulmani in Sicilia di Michele Armari che in origine di volumi ne prevedeva dodici».
Con la fine della guerra e la caduta del fascismo, l’ideale politico di educare – e istruire – le masse si rafforzò. Nel 1949 il Pci fece nascere la Cooperativa del libro popolare (Colip) la cui collana Universale Economica – o del Canguro – negli anni Cinquanta sarebbe diventata l’Universale Economica di Feltrinelli e avrebbe lasciato traccia di sé nel nome della collana I canguri. Sempre nel 1949 nacque la BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, che segnò il passaggio della casa editrice dai giornali e periodici ai libri. Racconta Ferretti: «Fu Luigi Rusca, un funzionario della casa editrice, a proporre l’idea di una collana economica di classici ad Angelo Rizzoli, ma il commendatore esitava. Era un tipo che univa la prudenza all’audacia. Alla fine, finalmente, si decise, e dopo qualche mese tornò dal suo funzionario: “Rusca”, gli disse, “lei mi ha imbrogliato: non mi aveva mica detto che con questi libri si faceva un sacco di soldi”.
Nel secondo dopoguerra le collane economiche rispondevano a una domanda generale di cultura, dovuta al fascismo e alla distruzione lasciata dalla guerra». I BUR avevano la copertina grigia, formato 10,2×15,6 cm, i titoli in carattere Bodoni, e uscivano ogni settimana. Il prezzo era calcolato in base alla carta, praticamente a peso, come dal macellaio: 50 lire ogni 100 pagine. La qualità dei libri e la quantità della carta incideva sui costi di produzione e, quindi, sul prezzo al pubblico, più di quanto non faccia oggi.
L’altra collana fondamentale nella storia italiana dei tascabili sono gli Oscar Mondadori, lanciati nel 1965 con Addio alle armi di Ernest Hemingway. Lo slogan, inventato dal poeta e direttore editoriale Vittorio Sereni, diceva: «i libri-transistor» (che erano le radioline, un’altra diavoleria modernissima). Gli Oscar furono i primi a essere venduti in tutte le edicole, e ad avere un direttore responsabile, come un periodico. «La grande intuizione di Mondadori», dice Ferretti, «fu pubblicare soltanto romanzi, mentre le collane economiche fino ad allora avevano cercato di coprire tutte le discipline. Inoltre negli Oscar non c’erano solo classici, ma anche romanzi italiani contemporanei di qualità, come La ragazza di Bube di Cassola, Vittorini, o Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Negli anni Sessanta in Italia ci fu un piccolo boom dei romanzi di qualità, perché probabilmente si era formato un pubblico più esigente e più attento alle novità».
A che punto siamo arrivati
La strada aperta dagli Oscar non si è ancora conclusa. Si capì che il prezzo dei libri era una variabile che interessava, quindi raggiungeva, un pubblico non necessariamente popolare. La scelta di acquistare libri piccoli ed economici dipendeva dalle disponibilità, ma anche dal modo in cui venivano letti. Da allora il lavoro dell’editore non si limitò più alla scelta, alla cura e alla distribuzione dei testi: divenne fondamentale il publishing: scegliere come presentare il libro, che oggetto produrre, per raggiungere il pubblico che si cercava. I libri iniziarono ad assomigliare a scatole con cui presentare un testo. I confini, in qualche modo, saltarono, si confusero. La divisione tra libri per ricchi e libri per poveri non reggeva più, e questo generò effetti sorprendenti, rimescolando l’offerta: furono lanciate ed ebbero successo collane in formato tascabile, ma raffinatissime, che si rivolgevano a lettori colti o desiderosi di sembrarlo, ma a prezzi contenuti, come la Piccola Biblioteca Adelphi, nel 1973, o la Memoria di Sellerio, nel 1979. Come ai tempi di Manuzio, i libri piccoli tornarono a essere gioielli, oggetti identitari in grado di definire chi li acquistava.
In altri casi i prezzi crollarono: nel 1992 Stampa alternativa di Marcello Baraghini inventò la collana Millelire, vendendo un milione di copie della Lettera sulla felicità di Epicuro; nello stesso anno Newton Compton lanciò la collana 100 pagine 1000 lire, ripubblicando testi brevi di autori classici – Freud, Shakespeare, Kafka i primi – a prezzi minimi; nel 1995 incominciarono a uscire i Miti Mondadori, per cercare di rivitalizzare la vena degli Oscar; e nel 1996 Einaudi lanciò Stile libero, che fino al 2001 fu la collana di tascabili della casa editrice, anche se aveva la licenza di pubblicare un certo numero di “original”, cioè di titoli che la casa editrice madre non avrebbe potuto permettersi. La linea di divisione tra prime edizioni con la copertina di cartone e la rilegatura a filo, e le seconde in formato più piccolo e in brossura, semplicemente, è saltata. La scelta del formato e la politica sul prezzo sono diventate variabili che definiscono la collana e la casa editrice, e il tipo di libro che pubblica. Due anni fa, nel 2014, Mondadori ha provato una cosa nuova con i Flipback, ripubblicando alcuni dei suoi bestseller maggiori in formato minuscolo, impaginandoli in orizzontale in modo da potere essere letti con una sola mano, come si fa sui telefonini, ma l’esperimento non ha avuto successo.
Nel campionato della maneggiabilità e trasportabilità, gli smartphone e gli eReader trionfano. Il concetto di tascabile – seconde edizioni di piccolo formato e basso prezzo rivolte a un pubblico popolare – non tiene più. Rimane vivissima, invece, la funzione delle edizioni economiche. Se le classifiche sono dominate dalle novità, le seconde edizioni – che hanno costi di produzione e quindi prezzi più bassi – rimangono la strategia più efficace per allungare la vita dei libri o resuscitarli dopo che la prima edizione ha terminato il suo ciclo. E rimangono il modo più facile per un editore per continuare a trarre profitti da un libro, aumentandone la redditività. Normalmente una prima edizione rimane sui banchi delle novità delle librerie qualche settimana, un paio di mesi se è un grande successo, dopodiché i librai rendono alla casa editrice i libri invenduti, trattenendo qualche copia per gli scaffali nella speranza che, prima o poi, un cliente richieda proprio quel titolo.
Soltanto una piccola parte delle novità verrà ripubblicata in seconda edizione economica: nel 2010 era il 3,8 per cento, nel 2015 questa percentuale è salita al 4,9. I titoli scelti sono quelli che hanno avuto successo e che l’editore sa di potere vendere ancora, a patto che qualcuno possa ancora vederli. La ripubblicazione in economica è la sola possibilità per trasformare un successo in un long-seller: per questo la percentuale dei titoli che vengono riproposti in economica è cresciuta e per questo il ciclo della ripubblicazione si è accorciato. Per un editore, oggi, è più conveniente rifare un libro in edizione tascabile, piuttosto che altre ristampe dell’edizione originale. Fino a dieci anni fa una seconda edizione non poteva assolutamente uscire prima di due anni, un anno e mezzo nei casi eccezionali. Negli ultimi cinque anni, la regola è saltata. Oggi una novità può uscire in edizione economica anche nove mesi dopo la pubblicazione della prima, perché è l’unico modo di farla tornare sui banchi delle librerie.