I serbi bosniaci hanno votato per rendere il 9 gennaio festa nazionale
Ed è stato un referendum importante, perché ha fatto emergere ancora una volta il conflitto tra serbi bosniaci e governo di Sarajevo
Aggiornamento lunedì – Domenica i serbi bosniaci hanno votato per rendere il 9 gennaio festa nazionale: con il 71 per cento dei voti scrutinati, il “sì” è avanti con il 99,8 per cento dei consensi, mentre l’affluenza dovrebbe essere stata attorno al 60 per cento. La maggior parte dei bosniaci musulmani e dei croati cattolici si è opposta al referendum, che tra le altre cose era stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale bosniaca. Il 9 gennaio è l’anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza dei serbi bosniaci, nel 1992, un evento che fu una delle cause dell’inizio della guerra (1992-1995).
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Domenica i cittadini serbi della Bosnia ed Erzegovina voteranno per un referendum che dovrà decidere se rendere il 9 gennaio festa nazionale (il cosiddetto “Giorno della Repubblica”). Il voto sta facendo molto discutere e secondo diversi analisti potrebbe mettere sotto pressione il precario equilibrio raggiunto con gli accordi di pace di Dayton del 1995, quelli che misero fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina. Il problema è che il 9 gennaio non è una data qualsiasi: è l’anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza dei serbi bosniaci, nel 1992, un evento che fu una delle cause dell’inizio della guerra (1992-1995). Oltretutto il referendum è stato indetto nonostante lo scorso novembre la Corte Costituzionale bosniaca l’avesse definito incostituzionale: istituire la festa nazionale il 9 gennaio, ha detto la corte, è una decisione discriminatoria nei confronti dei bosgnacchi e dei croati, gli altri due grandi gruppi etnici che vivono in Bosnia.
Un ripasso sulla Bosnia e sul 9 gennaio 1992
La Bosnia (il cui nome per intero è Bosnia ed Erzegovina) dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia il 3 marzo 1992. La guerra – almeno formalmente – era iniziata due giorni prima, l’1 marzo, durante il referendum con il quale si stava decidendo proprio l’indipendenza della Bosnia.
La situazione era molto tesa già da tempo: la Jugoslavia aveva cominciato a perdere pezzi due anni prima con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia, a cui erano seguite quelle della Croazia e della Macedonia. Croati e serbi volevano controllare la Bosnia multiculturale che ospitava serbi, croati e musulmani bosniaci (chiamati anche bosgnacchi). Quando nell’ottobre del 1991 il parlamento bosniaco emanò un Memorandum sulla riaffermazione della sovranità della Bosnia, sulla scia di quello che stava accadendo ad altri paesi della Jugoslavia, i serbi bosniaci si arrabbiarono molto. Abbandonarono il parlamento bosniaco (con sede a Sarajevo) e crearono un parlamento alternativo che rappresentasse solo i serbi della Bosnia. Non solo: organizzarono un referendum nel quale la stragrande maggioranza dei votanti disse di volere la creazione di una Repubblica Serba che rimanesse unita alla Serbia e al Montenegro mentre la Bosnia si divideva dalla Jugoslavia. Il parlamento dei serbi bosniaci proclamò la nascita della Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia ed Erzegovina il 9 gennaio 1992: quello che i serbi bosniaci vorrebbero che diventasse il “Giorno della Repubblica”.
La guerra inizierà due mesi dopo, combattuta in diversi momenti tra croati, bosgnacchi e serbi. Durò tre anni e fu violentissima: l’episodio più noto è il massacro di Srebrenica (in Bosnia), compiuto dalle forze militari serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic contro migliaia di musulmani bosniaci.
Il referendum
Il referendum si terrà solamente nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, cioè in una delle tre entità in cui è divisa oggi la Bosnia (ci sono anche la Federazione della Bosnia ed Erzegovina, abitata in prevalenza da bosgnacchi e croati, e il distretto di Brčko, ancora supervisionato da un rappresentante internazionale). Il referendum è stato indetto da Milorad Dodik, il presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina: Dodik è il leader dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), da sempre ostile al governo di Sarajevo. Nel corso dell’ultimo decennio Dodik ha detto più volte di voler organizzare un referendum sull’indipendenza della Repubblica Serba: il suo partito, Snsd, ha anche adottato una dichiarazione che annuncia un referendum sull’indipendenza nel 2018, che si terrà nel caso in cui la Repubblica Serba non otterrà entro il 2017 i poteri che Snsd ritiene le siano stati sottratti durante il processo di pace.
Alcuni osservatori si sono detti molto preoccupati per quello che potrebbe succedere dopo il referendum: qualcuno si è spinto a dire che i serbi bosniaci potrebbero dichiarare la loro indipendenza dalla Bosnia, dissolvendo di fatto gli accordi di Dayton. Srecko Latal, del Balkan Investigative Reporting Network (una rete di organizzazioni non governative locali che promuovono la libertà di espressione e i diritti umani), ha detto al New York Times: «Se il referendum si farà, il messaggio per i musulmani bosniaci sarà che Dayton si è disfatto, e i musulmani bosniaci non accetteranno una rottura pacifica della Bosnia». Potrebbero sembrare affermazioni esagerate, ma guardando quello che è successo durante la disgregazione della Jugoslavia lo sembrano molto di meno. Come ha scritto Balkan Insight, un sito che si occupa di cose dei Balcani, tra il 1990 e il 2006 si sono tenuti referendum relativi all’identità, alla sovranità, all’indipendenza e ai processi di pace in sei delle repubbliche che hanno formato la Jugoslavia, oltre che in Kosovo e nella regione di Sandzak: solamente una volta – quando si votò per l’indipendenza del Montenegro – si raggiunse quello che si proponevano i promotori dei referendum senza che ci fossero violenze.
Il risultato del referendum non è in dubbio: ci si aspetta un’affluenza superiore al 50 per cento e una vittoria dei favorevoli a proclamare il 9 gennaio festa nazionale.
Cosa dice la Serbia? E la Russia? E gli altri?
La Serbia non sostiene pubblicamente il referendum di domenica, anche se il suo ministro degli Esteri, Ivica Dacic, ha detto che non permetterà la distruzione della Repubblica Serba di Bosnia nel caso venisse attaccata. La posizione piuttosto attendista del governo serbo potrebbe essere spiegata anche dal fatto che nel gennaio 2014 la Serbia ha cominciato i negoziati per l’adesione all’Unione Europea: diversi paesi europei hanno già detto di essere contrari al referendum e hanno parlato del rischio che gli accordi di Dayton possano sfaldarsi, con tutte le conseguenze negative che ne deriverebbero.
La Russia, da sempre vicina ai serbi, ha difeso il diritto dei serbi bosniaci di tenere il referendum, tramite una dichiarazione del suo ambasciatore in Bosnia. Della situazione potrebbe approfittare anche la Turchia, che da tempo sta cercando di rafforzare i legami con la leadership musulmana della Bosnia. Forse nel tentativo di limitare l’influenza russa in Bosnia, martedì i paesi dell’Unione Europea hanno chiesto alla Commissione europea di valutare una possibile candidatura della Bosnia, anche se non sembrano oggi sussistere le condizioni né economiche né politiche necessarie per avviare un processo di questo tipo. Oggi la Bosnia ha un sacco di problemi: la corruzione dilagante, tassi di disoccupazione vicini al 27 per cento e l’emigrazione all’estero di decine di migliaia di persone, tra cui molti giovani istruiti.