Quattro altre cose sulla tregua in Siria
I litigi dentro l'amministrazione Obama e il problema dell'influenza di Assad sull'ONU, tra le altre: storie per capire meglio perché è così difficile arrivare a una pace
Dalle 19 di lunedì in Siria è in vigore una tregua che prevede la sospensione dei combattimenti tra i soldati legati al regime siriano di Bashar al Assad e i ribelli. La tregua dovrebbe permettere all’ONU di consegnare aiuti umanitari alle popolazioni siriane che sono assediate da mesi o anni da eserciti rivali; prevede inoltre che passati sette giorni dalla sua entrata in vigore, Stati Uniti e Russia – che in Siria combattono su due fronti diversi – compiano bombardamenti coordinati per colpire quelli che definiscono gruppi terroristici, cioè Jabhat Fateh al Sham (ex al Qaida in Siria, che combatte contro Assad) e Stato Islamico. Ad oggi sono già emersi molti dei problemi che avevano evidenziato i critici dell’accordo, fortemente voluto dal segretario di Stato americano John Kerry: ribelli e regime si sono accusati vicendevolmente di avere violato la tregua, l’ONU ha accusato Assad di non permettere il passaggio degli aiuti umanitari, diverse fazioni si sono opposte alla seconda fase del piano, quello dei bombardamenti contro Jabhat Fateh al Sham e Stato Islamico. Ognuno di questi problemi ha una storia, e tutte queste storie messe insieme fanno capire meglio quello che sta succedendo in Siria e perché sia così difficile trovare una qualsiasi soluzione che assomigli a una vera pace.
Nell’amministrazione Obama non è tutto rose e fiori
Non è frequente che sui quotidiani statunitensi arrivino i racconti delle beghe interne del governo su questioni di politica estera, ma ogni tanto succede. Mercoledì il New York Times ha pubblicato un articolo dettagliato che spiega i forti disaccordi che ci sono stati sulla tregua in Siria tra dipartimento di Stato (che corrisponde al nostro ministero degli Esteri) e dipartimento della Difesa. I segretari a capo dei due dipartimenti – rispettivamente John Kerry e Ashton Carter – hanno fatto molte pressioni su Barack Obama per portare ciascuno acqua al suo mulino: Kerry ha spinto per arrivare alla tregua, praticamente a ogni costo; Carter si è opposto alla fase due dell’accordo, quella che prevede la cooperazione militare tra Russia e Stati Uniti nei bombardamenti contro Stato Islamico e Jabhat Fateh al Sham.
Il presidente Barack Obama, alla sua destra il segretario di Stato John Kerry e alla sua sinistra il segretario della Difesa Ashton Carter, a una conferenza stampa a Washington, il 25 febbraio 2016 (MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)
Il New York Times ha scritto che lo stesso Kerry ha confidato a consiglieri e amici di non credere che la tregua funzionerà, ma ha anche detto di essere determinato a provarci: per lui è in parte una questione di legacy – un termine che indica l’eredità di un politico, una volta lasciato il suo incarico – dopo il fallimento della precedente tregua in Siria (a febbraio) e il successo dell’accordo sul nucleare iraniano (a luglio), entrambi processi nei quali c’è stato un importante coinvolgimento americano. Carter ha invece una posizione opposta: teme soprattutto le conseguenze della cooperazione militare con la Russia, in un momento in cui i rapporti tra i due paesi non sono positivi (l’ultima grossa questione è stata l’attacco di hacker russi – probabilmente dell’intelligence militare russa – ai server del Partito Democratico americano). Collaborare significa rischiare che i russi acquisiscano informazioni su come gli americani usano l’intelligence e conducono gli attacchi aerei: informazioni utili non solo in Siria, ma anche in altre zone del mondo che interessano ad entrambi i paesi, come gli stati baltici.
Le posizioni di Kerry e Carter riflettono l’indecisione della politica di Obama in Siria, che negli ultimi quattro anni è stata più volte criticata per fare mezzo passo da una parte e mezzo dall’altra. Nonostante la posizione di Kerry alla fine abbia prevalso, lo stesso Obama non ha risolto i suoi dubbi. Josh Ernest, il portavoce della Casa Bianca, ha detto: «Penso che ci siano delle ragioni per essere scettici sul fatto che i russi siano in grado o vogliano implementare l’accordo nella maniera in cui è stato descritto. Ma vedremo come andrà».
Assad vuole cambiare la distribuzione geografica della popolazione in Siria
Nonostante la tregua iniziata lunedì al tramonto, il governo siriano di Assad sta continuando a costringere i ribelli ad arrendersi e ad evacuare le loro roccaforti. Non si sta parlando di quello che succede normalmente dopo una battaglia persa, ha raccontato un articolo del Wall Street Journal. Quella di Assad è una pratica che ha lo scopo di dividere la Siria in zone con popolazioni di origini e religioni diverse attraverso spostamenti forzati di migliaia di persone. Per farlo, il governo siriano usa da tempo la tattica dell’assedio: circonda la zona di territorio considerata nemica e blocca tutte le vie di rifornimento, impedendo l’accesso di cibo e di fatto costringendo le popolazioni locali ad accettare una tregua, arrendersi e lasciare le proprie case. L’ONU ha definito l’assedio una tattica di guerra «medievale» e ha chiesto inutilmente che non venga più usata.
Secondo il Wall Street Journal, lo spostamento di massa di migliaia di persone da una parte all’altra del paese rischia di accentuare ancora di più quella partizione della Siria che da tempo è diventata evidente: a nord i curdi hanno di fatto creato un proprio stato; a ovest – soprattutto sul confine con il Libano e nelle aree costiere – ci sono i territori controllati dagli alauiti, i membri della setta dello sciismo a cui appartiene anche Assad; il resto della Siria è abitata prevalentemente da sunniti, l’orientamento a cui fanno parte molti dei gruppi ribelli che combattono Assad, oltre che lo Stato Islamico (la divisione etnica e religiosa della Siria non è così schematica, chiaramente: si sta facendo una semplificazione). Alla fine di agosto i ribelli che combattevano a Daraya, una città vicino a Damasco, si sono arresi alle forze di Assad, dopo quasi quattro anni di assedio. Circa 10mila persone sono state costrette a spostarsi immediatamente in altre zone del paese in quella che è stata l’evacuazione più grossa di tutta la guerra siriana. Pochi giorni dopo i soldati di Assad hanno convocato i ribelli di Moadhamiya, sempre vicino a Damasco, alla presenza di due militari russi: hanno minacciato di bombardare la città se i ribelli non avessero accettato le loro condizioni. E la situazione di Moadhamiya non è isolata. Le pressioni dei soldati di Assad stanno andando avanti anche in questi giorni.
Esiste un problema di influenza del governo siriano sull’ONU?
Da diverso tempo l’ONU è accusato dalle opposizioni siriane di non avere preso una posizione ferma sui tentativi del governo di Assad di bloccare la consegna degli aiuti umanitari nelle zone controllate dai ribelli. Per l’ONU è una continua negoziazione con i funzionari di Assad su come, dove e quando consegnare gli aiuti. La questione è stata spiegata bene da Aron Lund, esperto di Siria, in un articolo pubblicato sul sito del Carnegie Middle East Center, un think tank con sede a Beirut (Libano) che si occupa di Medio Oriente. Il blocco degli aiuti umanitari, ha spiegato Lund, viene fatto non solo dal governo ma anche dai ribelli verso le zone controllate dai soldati di Assad, ma con una sostanziale differenza: mentre i ribelli possono solo bloccare le strade di collegamento usate dai convogli umanitari, il governo di Assad ha l’autorità legale – in quanto stato – per bloccare un progetto umanitario dell’ONU semplicemente rifiutandosi di firmare un documento: un’autorità che ha usato spesso in passato, contribuendo a creare crisi molto gravi nelle città assediate.
Il dibattito si è fatto ancora più intenso dopo la pubblicazione di un’inchiesta sul Guardian su come vengono gestiti gli aiuti in Siria. L’inchiesta, realizzata da Nick Hopkins ed Emma Beals, ha mostrato come l’ONU abbia firmato contratti per la consegna di aiuti umanitari dal valore di decine di milioni di dollari con uomini d’affari le cui società sono sotto sanzioni americane ed europee (tra cui una legata alla moglie del presidente Assad, Asma al Assad, e un’altra legata a un suo stretto alleato, Rami Makhlouf). L’ONU ha risposto che l’unica possibilità di consegnare gli aiuti è quella di appoggiarsi alle poche società approvate dal presidente Assad – alternative non ce ne sono – e ha ribadito di avere solo l’obbligo di rispettare i divieti previsti dalle sanzioni ONU (che sono diverse dalle sanzioni della UE e degli Stati Uniti). «Così è come vanno le cose in Siria», ha scritto Lund citando una fonte di Damasco vicina alle operazioni umanitarie. I critici hanno comunque accusato l’ONU di essere compromesso con il regime siriano.
Le difficoltà di consegnare aiuti umanitari si stanno vedendo anche nella tregua cominciata lunedì al tramonto. Prima l’ONU ha detto che il regime siriano non dava l’autorizzazione a 20 camion ONU ad entrare nell’area orientale di Aleppo, quella controllata dai ribelli. Poi Assad ha detto che non avrebbe permesso l’entrata ad Aleppo di convogli umanitari turchi senza un particolare permesso (la Turchia è alleata dei ribelli). I ribelli hanno contestato la presenza di militari russi – alleati di Assad – dalla principale via di rifornimento di Aleppo, che in teoria dovrebbe essere lasciata libera dalla presenza dei curdi e dei soldati di Assad. Ora sembra che i primi aiuti potrebbero arrivare venerdì mattina, anche se finora nessuno ha cominciato il ritiro dei suoi combattenti.
E i buoni? E i cattivi?
Il problema di chi bombardare e chi no durante la tregua è direttamente legato a quello che sta succedendo tra i ribelli e alla posizione di Jabhat Fateh al Sham, il gruppo che prima era conosciuto come Jabhat al Nusra, la divisione siriana di al Qaida. Andiamo con ordine. Tra le altre cose, la tregua impedisce al regime di Assad di bombardare i ribelli ma gli permette di continuare ad attaccare i due gruppi esclusi dall’accordo, Jabhat Fateh al Sham e lo Stato Islamico. Il problema è che in diverse zone della Siria Jabhat Fateh al Sham sta combattendo assieme ai ribelli contro il regime di Assad: assieme significa che se non si realizza una divisione netta nel fronte dei ribelli è praticamente impossibile distinguere quelli che l’Occidente considera terroristi da quelli che ritiene essere legittimi combattenti. Jabhat Fateh al Sham ha voluto e cercato l’alleanza con i ribelli: a luglio il suo leader, Abu Mohammed al Golani, ha diffuso un video in cui ha annunciato il cambio di nome del gruppo (non più Jabhat al Nusra) e l’interruzione dei rapporti con al Qaida. Molti analisti credono che si sia trattato di una mossa decisa con al Qaida stessa: l’obiettivo sarebbe stato descriversi come una fazione ribelle siriana e non come un gruppo terroristico internazionale, di modo da essere visto meglio dalle popolazioni locali e dai ribelli più moderati.
L’ambiguità di questa alleanza è diventata una questione ancora più rilevante con la tregua in corso. Assad potrebbe usare il pretesto di colpire Jabhat Fateh al Sham per bombardare anche gli altri gruppi ribelli che però in teoria sono protetti dall’accordo. È un problema che tra pochi giorni dovranno affrontare anche gli Stati Uniti: il testo dell’accordo dice che se dopo una settimana di tregua il livello di violenze in Siria si sarà significativamente ridotto, Stati Uniti e Russia condurranno bombardamenti coordinati contro Jabhat Fateh al Sham e Stato Islamico. Ma come faranno gli Stati Uniti a riconoscere i jihadisti dai ribelli più moderati? La situazione potrebbe complicarsi ancora: il comandante di Jabhat Fateh al Sham della provincia settentrionale di Aleppo ha detto ad Associated Press che potrebbe presto annunciare una fusione tra il suo gruppo e Ahrar al Sham, una fazione molto radicale ma anche molto forte militarmente nella guerra contro Assad, e non considerata gruppo terroristico. Se i bombardamenti russi-americani finissero per colpire le opposizioni siriane, oltre che Jabhat Fateh al Sham, il rischio è che diventi ancora più forte la percezione che molti siriani hanno del comportamento del governo statunitense in Siria: cioè che si è messo d’accordo con il regime di Assad per opportunità, per difendere solo i suoi interessi nazionali, sacrificando la causa dei ribelli siriani per raggiungere l’obiettivo primario di sconfiggere lo Stato Islamico e al Qaida.