Il Partito Democratico giapponese ha eletto per la prima volta una leader donna
Si chiama Renho Murata: secondo alcuni è una grande svolta per un partito in crisi, secondo altri invece è un semplice cambio di immagine
Il Partito Democratico del Giappone, la principale forza di opposizione alla coalizione di governo del primo ministro conservatore Shinzo Abe, ha eletto per la prima volta una donna come leader: Renho Murata ha 48 anni, è un’ex ministra ed è membro della Camera alta del parlamento. Renho ha ottenuto la nomina contro Seiji Maehara, che aveva avuto incarichi di governo durante la breve esperienza del Partito Democratico al potere tra il 2009 e il 2012, e Yuichiro Tamaki, ex burocrate del ministero delle Finanze, eletto in parlamento nel 2009 e poco conosciuto fuori dal partito. Nella votazione di giovedì 15 settembre Renho ha vinto superando la maggioranza semplice necessaria per essere nominata al primo turno: ha ottenuto 503 voti su un totale di 849, Maehara 230 e Tamaki 116.
Renho Murata, che durante la campagna elettorale per la leadership ha scelto di farsi chiamare solo Renho, ha 48 anni, è madre di due figli, è una ex modella e ex conduttrice televisiva. La sua vittoria era stata prevista perché nei giorni scorsi aveva ottenuto il sostegno di metà dei deputati del parlamento, compreso quello dell’ex leader Katsuya Okada che aveva dato le sue dimissioni dopo i pessimi risultati del Partito Democratico alle elezioni dello scorso luglio per il rinnovo della metà dei seggi della Camera alta.
Secondo diversi osservatori Renho è stata scelta con l’obiettivo di rinnovare il partito, che è stato accusato di non avere contrastato più efficacemente la coalizione di Abe e il suo piano per cambiare la Costituzione, e che è stato molto criticato nel 2011 per come aveva gestito lo tsunami e il conseguente disastro alla centrale nucleare di Fukushima (nel dicembre del 2012, dopo Fukushima e una crisi di governo, c’erano state elezioni anticipate vinte con ampio margine dai liberaldemocratici di Shinzo Abe).
La nomina di Renho è considerata una scelta innovativa e radicale per due motivi: è una donna e ha in parte origini non giapponesi. Durante la campagna per la leadership, infatti, è stata molto attaccata su quest’ultima questione e per come l’ha gestita. Renho è nata e cresciuta in Giappone: sua madre è giapponese ma il padre è di Taiwan e lei ha la doppia cittadinanza, anche se di fatto la legge lo vieta (non è prevista comunque alcuna sanzione per chi non la rispetta). Quando Renho è nata, il Giappone non concedeva la cittadinanza ai bambini che non avevano il padre giapponese. Renho ha ottenuto la cittadinanza giapponese solo nel 1985, a 17 anni, quando la legge è stata modificata, non rinunciando però formalmente alla cittadinanza di Taiwan. In un primo momento aveva negato la doppia cittadinanza dicendo di aver rinunciato alla cittadinanza di Taiwan quando era adolescente; la scorsa settimana ha invece ammesso di non averlo fatto e di aver depositato i documenti necessari solo di recente. Per questo è stata però accusata di doppiezza e slealtà.
Tra le democrazie del mondo sviluppato, scrive il New York Times, il Giappone ha uno dei peggiori tassi di rappresentanza femminile nelle posizioni di potere. Oggi però Renho Murata è diventata la terza donna ad assumere un alto incarico in meno di due mesi. Lo scorso luglio a Tokyo, la capitale del Giappone, è stata eletta per la prima volta una governatrice, Yuriko Koike; il mese scorso invece il primo ministro Shinzo Abe ha affidato il ministero della Difesa a Tomomi Inada. Sia Koike che Inada fanno parte del partito conservatore di Abe. Le donne, in Giappone, occupano meno del 10 per cento dei seggi della Camera bassa del parlamento e il 20 per cento di quelli della Camera alta. Abe l’anno scorso ha ammesso che il suo governo non sarebbe riuscito a raggiungere l’obiettivo inizialmente dichiarato di riservare alle donne entro il 2020 il 30 per cento degli incarichi dirigenziali nel settore pubblico e privato. Eppure, scrive sempre il New York Times, questo potrebbe essere un buon momento per il Giappone: ci sono tre donne in posizioni importanti che potenzialmente potrebbero rappresentare un passaggio verso la nomina alla carica di primo ministro. Il New York Times cita un’altra leader donna del Giappone, Takako Doi, che ha guidato il Partito socialista quasi 30 anni fa. Doi aveva contribuito a portare più donne in Parlamento, ma quella tendenza non era durata a lungo.
Le femministe giapponesi sperano che Renho possa insistere su questioni importanti per le donne, come la cura dei figli, la parità di retribuzione e la protezione dalla violenza domestica. Rispondendo a una domanda durante una conferenza stampa, Renho ha detto di voler favorire l’elezione di più deputate al Parlamento e ha insistito sul diritto delle donne a mantenere il loro nome da nubili anche dopo il matrimonio. La questione in Giappone è piuttosto sentita: nel 2015 la più alta corte del paese ha confermato una legge considerata discriminatoria e risalente a più di un secolo fa, che impone alle coppie sposate di condividere lo stesso cognome e quindi alle mogli di prendere il cognome dei mariti. Alcuni temono però che Renho, come altre donne in posizioni di leadership, sia costretta a dimostrare il suo peso politico rinunciando a insistere sulle questioni cosiddette “femminili”. Nel suo discorso finale prima del voto, Renho aveva fatto riferimento ai suoi due figli spiegando le difficoltà e la frustrazione che subisce una donna nel dover conciliare lavoro e maternità. Ma nel suo discorso dopo la nomina non ha fatto alcun riferimento al suo genere, parlando solo delle sfide future del partito.
Nella campagna per le elezioni alla leadership Renho ha puntato molto sul cambiamento interno del partito, promettendo di trasformarlo in una “forza rivoluzionaria” che possa offrire reali alternative alla politica del primo ministro Shinzo Abe. In particolare ha promesso di battersi per maggiori investimenti sull’istruzione e per dare stipendi più alti agli insegnanti. Alcuni osservatori non si aspettano però da lei grandi cambiamenti e pensano anzi che aderirà alle politiche del suo predecessore, Katsuya Okada. Renho ha promesso di proteggere l’articolo 9 della Costituzione, che Abe vorrebbe modificare e che impone al Giappone di non avere un esercito vero e proprio, come stabilito dopo la Seconda guerra mondiale. Renho si è detta però disponibile a discutere degli emendamenti costituzionali con la coalizione di governo.
Da tempo Abe propone di riformare la Costituzione, cambiando tra le altre cose l’articolo 9. Il Giappone ha una Costituzione esplicitamente pacifista, che fu scritta dagli occupanti americani dopo la sconfitta alla fine della Seconda guerra mondiale. Secondo i suoi dettami, i giapponesi non possono avere un vero esercito e non possono in nessun caso ricorrere all’uso della minaccia e della forza nelle relazioni internazionali. Di fatto negli anni queste limitazioni sono state aggirate e oggi il Giappone è dotato di un’efficiente “forza di autodifesa”, con aerei da guerra e carri armati, a cui una legge recente ha consentito di schierarsi all’estero in situazioni di emergenza. Ma le limitazioni causate dalla Costituzione restano comunque pesanti, e uno degli obiettivi storici dei liberaldemocratici è proprio eliminarli. Per farlo Abe ha bisogno di ottenere una maggioranza del 60 per cento in entrambe le camere, in modo da approvare la riforma e in seguito sottoporla a referendum popolare. La coalizione di Abe ha due terzi dei voti nella Camera bassa, e lo scorso luglio ha ottenuto una “super maggioranza” anche alla Camera alta: di fatto ha dunque i numeri necessari per approvare la riforma.
Il Partito Democratico è di centrosinistra ed è il frutto della fusione del marzo scorso tra il Partito Democratico del Giappone e il più piccolo Partito dell’Innovazione Giapponese. Alle elezioni si era presentato con un’alleanza con il Partito Comunista del Giappone e con altri due partiti di opposizione più piccoli. Questa alleanza è criticata anche all’interno dello stesso partito, perché non ha un’ideologia chiara e ben definita. I suoi membri vanno dai nazionalisti di destra agli estremisti di sinistra, e di conseguenza fatica a trovare posizioni efficaci. «Abbiamo fatto l’errore di opporci sempre alle politiche del governo, ma non proponendo mai nostre alternative», ha detto per esempio Akihisa Nagashima, parlamentare del Partito Democratico, aggiungendo che la nuova leadership sarà secondo lui l’occasione per discutere di questi problemi.