In Libia si combatte ancora per il petrolio
E questa volta l'ISIS non c'entra niente: i soldati del generale Haftar hanno conquistato due porti tra Sirte e Bengasi, una bruttissima notizia per il governo appoggiato dall'ONU
Domenica la principale milizia armata della Libia orientale ha attaccato e conquistato due grossi porti tra Sirte e Bengasi da cui viene esportato il petrolio libico: sono le stesse infrastrutture che aveva cercato di conquistare lo Stato Islamico a inizio anno, senza però riuscirci. La notizia, che è stata ripresa da diversi giornali internazionali, è molto importante: la milizia che ha attaccato le infrastrutture è quella guidata dal generale Khalifa Haftar, che controlla la Libia orientale e che da tempo combatte i gruppi islamisti dell’ovest sfruttando l’appoggio di stati stranieri, come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. I soldati di Haftar si sono scontrati con le Guardie delle installazioni del petrolio, una milizia guidata da Ibrahim Jathran e che a luglio aveva trovato un accordo con il governo di unità nazionale appoggiato dall’Occidente. Il Wall Street Journal ha scritto che gli scontri di domenica sono stati il «primo conflitto armato» tra il governo della Libia orientale – quello che appoggia Haftar – e il governo di unità nazionale – quello che si è insediato nella capitale Tripoli ed è appoggiato dall’ONU.
L’attacco di Haftar alle installazioni petrolifere – quelle di Ras Lanuf ed Es Sider (a Brega e Zueitina si continua a combattere) – è importante perché ha aggiunto un nuovo livello di scontri in Libia. Facciamo una premessa, per capirci qualcosa, sulla situazione libica: da fine marzo a ovest del paese si è insediato il governo di unità nazionale, cioè quel governo appoggiato dall’ONU, riconosciuto internazionalmente (anche dall’Italia) e con sede e Tripoli. Il governo di unità nazionale, guidato dal primo ministro Fayez Serraj, si sta scontrando con lo Stato Islamico in Libia, grazie anche all’aiuto dei bombardamenti statunitensi. Uno dei suoi obiettivi è riprendere il controllo di Sirte, la città libica più importante conquistata dallo Stato Islamico: ci sta riuscendo, anche se con qualche lentezza. L’autorità del governo di unità nazionale non è però sfidata solo dallo Stato Islamico e da decine di altre milizie, ma anche dai soldati di Haftar (a loro volta nemici dello Stato Islamico), che fino ad oggi si sono rifiutati di trovare un accordo con Serraj che riconosca la presenza di un unico governo in tutta la Libia. Quindi, per semplificare: ci sono due governi rivali, appoggiati rispettivamente da diverse milizie, ci sono diverse milizie autonome e poi c’è lo Stato Islamico, che come in Siria e in Iraq sta perdendo forza e territori.
Il generale libico Khalifa Haftar il 18 marzo 2015 (AP Photo/Mohammed El-Sheikhy, File)
L’attacco di domenica è importante per due motivi. Primo: gli scontri alle infrastrutture petrolifere libiche potrebbero rallentare ulteriormente la ripresa dello sfruttamento e vendita del petrolio, che rappresenta il 95 per cento delle entrate statali. L’industria del petrolio ha subìto dei danni e rallentamenti significativi negli ultimi anni, a causa della guerra civile e dei tentativi di diversi gruppi – tra cui lo Stato Islamico – di impadronirsi delle principali infrastrutture. Per esempio l’installazione di Zueitina aveva ripreso a esportare petrolio solo ad agosto, dopo quasi un anno di inattività, grazie all’accordo raggiunto tra Jadran (il capo delle Guardie delle installazioni del petrolio, la milizia che fino a ieri controllava la zona) e il governo di unità nazionale di Serraj. Oggi la produzione è comunque ferma a circa 200mila barili di greggio al giorno, una quantità molto lontana dagli 1,6 milioni di barili prodotti prima della rivoluzione contro l’ex presidente libico Muammar Gheddafi, nel 2011. Non è chiaro cosa succederà se le forze di Haftar riusciranno a imporre saldamente il loro controllo sui porti, ma di certo sarà una bruttissima notizia per il governo libico: Reuters ha scritto che riniziare a produrre petrolio è visto come necessario per salvare l’economia libica e assicurare la sopravvivenza del governo di unità nazionale.
Da sinistra: il primo ministro libico Fayez al-Serraj, il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni durante una conferenza stampa a Vienna, in Austria, il 16 maggio 2016 (Leonhard Foeger/Pool Photo via AP)
Secondo: i combattimenti tra i soldati di Haftar e le Guardie delle installazioni del petrolio hanno alzato il livello dello scontro tra i due governi libici, quello di Tripoli e quello orientale. Se un accordo tra Serraj e Haftar era molto improbabile fino a ieri, oggi è praticamente impossibile: con l’attacco di domenica, Haftar ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di scendere a patti con il governo di unità nazionale (non che prima avesse dato segni di grandi aperture, comunque). Questo significa anche un’altra cosa, la più importante: la fine sostanziale del piano elaborato e sponsorizzato dall’ONU e dagli Stati Uniti (e fortemente sostenuto dall’Italia) che prevedeva la riconciliazione tra il governo di Tripoli (Serraj) e le forze di Bengasi (Haftar) e la creazione di un solo centro di potere (quello di Serraj) in tutto il paese.
C’è poi da considerare un’ultima cosa. La situazione in Libia è ancora più incerta per la presenza dello Stato Islamico, che fino a poco tempo fa controllava saldamente Sirte (la Libia è considerata il paese dove è più forte la presenza dello Stato Islamico al di fuori di Iraq e Siria). Da qualche settimana, tuttavia, lo Stato Islamico è in grossa difficoltà: le milizie di Misurata, alleate di Serraj, hanno cominciato un attacco a Sirte molto deciso e potrebbero riuscire a liberare completamente la città nel giro di poco tempo.