Cosa sarebbe successo se tre anni fa l’Occidente fosse intervenuto in Siria
Forse sarebbe stato un disastro, scrive Anne Applebaum sul Washington Post, non lo sappiamo: però sappiamo che disastro è stato non intervenire
di Anne Applebaum – The Washington Post
Non so cosa sarebbe successo se tre anni fa questo lunedì l’allora primo ministro britannico David Cameron non avesse stupidamente chiesto e perso un voto sull’intervento in Siria alla Camera dei Comuni, la camera bassa del Parlamento britannico. Forse, se avesse fatto più attenzione, se fosse sembrato più interessato e avesse detto ai suoi colleghi di tornare dalle vacanze, avrebbe avuto successo. Forse poi ci sarebbe stato un intervento militare, e forse avrebbe contribuito a porre fine al conflitto. O forse non ci sarebbe riuscito. Non lo sapremo mai.
Ma sappiamo invece come sono andate le cose. Il Regno Unito ritirò il suo sostegno alla missione che aveva l’obiettivo di fermare l’uso delle armi chimiche da parte di Bashar al Assad, il dittatore siriano. Spaventato dal voto della Camera dei Comuni, anche il presidente americano Obama cambiò idea sull’intervento. La mattina del 30 agosto 2013, l’allora segretario di Stato americano John Kerry aveva esortato ad agire militarmente: «La storia è piena di leader che ci hanno messo in guardia dall’inazione, dall’indifferenza, e in particolar modo dallo stare in silenzio nei momenti più importanti». Il giorno dopo, però, Obama annunciò che tutti i piani per un attacco erano stati annullati. La Francia, presa alla sprovvista, non volle agire da sola e si ritirò, a malincuore. «Fu una grossa sorpresa», aveva raccontato il primo ministro francese Manuel Valls al giornalista dell’Atlantic Jeffrey Goldberg. «Se avessimo bombardato la Siria come era in programma, credo che oggi le cose sarebbero diverse». Lo ripeto: è possibile che un intervento congiunto di Stati Uniti, Regno Unito e Francia si sarebbe rivelato un disastro. In quel caso, oggi staremmo recriminando sulle conseguenze. Ma a volte è importante recriminare anche sulle conseguenze del non intervento. A tre anni di distanza, in fondo, sappiamo esattamente cosa il non intervento ha generato.
Morti. Stando alle stime, le persone morte durante la guerra in Siria vanno dai circa 155mila ai 400mila, a seconda di chi ha fatto il conteggio. Questo mese l’Osservatorio siriano per i diritti umani ha detto di aver registrato in totale la morte di 14.711 bambini. Da quando lo Stato Islamico (o ISIS) ha creato in Siria il suo sedicente califfato, secondo le stime il gruppo ha ucciso 2.350 civili. In Siria l’aspettativa di vita è scesa da quasi 80 anni a 55.
Profughi. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), al 16 agosto c’erano 4,8 milioni di profughi siriani. Si ritiene ce ne siano altri 2 milioni che rimangono in Siria ma sono stati sfollati dalle loro case. Il 75 per cento delle persone fuggite dalle loro case sono donne e bambini. La maggior parte non ha niente se non i vestiti che indossa. Per mettere le cose in prospettiva, la crisi dei profughi generata dalle guerre nell’ex Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta provocò 2,3 milioni di profughi, e ai tempi venne considerata la peggiore crisi di profughi dagli anni Quaranta. Quella siriana è tre volte più grande.
Distruzione. Le antiche città di Aleppo, Bosra e Palmira sono state danneggiate in modo irreparabile. Damasco è gravemente danneggiata. In tutto il paese, le infrastrutture – strade, ponti, fabbriche – sono state distrutte. Sono stati rasi al suolo scuole e ospedali. Non più tardi del mese scorso, ad Aleppo il governo siriano ha bombardato quattro ospedali di fortuna e una banca del sangue.
Destabilizzazione della regione. La grande maggioranza dei profughi siriani si trova oggi in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto, stati poveri e fragili in cui sono un enorme peso economico e politico. Il 20 per cento dei residenti in Libano sono profughi siriani, un numero che potrebbe turbare il delicato equilibrio politico del paese. In Giordania ci sono stati scontri nei campi profughi. In Turchia, gli effetti collaterali della guerra siriana includono l’inasprimento delle tensioni con la minoranza curda e altri gruppi all’interno del paese, ma anche un alto tasso di criminalità, contrabbando e disordini lungo il confine. La Turchia – che è membro della NATO – è stata ulteriormente coinvolta nel conflitto: se lo Stato Islamico attaccasse la Turchia, potrebbe essere necessaria una reazione della NATO.
Destabilizzazione in Europa. In parte per via della guerra in Siria, centinaia di migliaia di profughi hanno cercato di raggiungere l’Europa in barca attraverso il Mediterraneo o a piedi attraverso i Balcani. A maggio l’UNHCR ha detto che nel solo 2016 sono affogate più di duemila persone – provenienti dalla Siria ma anche dall’Africa – più di quante erano morte nello stesso periodo nel 2015. Le isole al largo delle coste di Grecia e Italia sono sopraffatte. La mancata volontà o l’incapacità di controllare il flusso dei profughi da parte dell’Unione Europea ha contribuito a minarne ulteriormente la credibilità istituzionale.
Ascesa della xenofobia in Occidente. Vedere centinaia di migliaia di persone in viaggio a piedi e in barca verso l’Europa ha alimentato un livello di xenofobia senza precedenti. Le elezioni in Austria e Polonia sono state influenzate in parte da una retorica anti-profughi, che ha avuto un ruolo anche nel voto su Brexit nel Regno Unito. I partiti nazionalisti e di estrema destra in Ungheria, Francia, Germania e Italia stanno riuscendo a sfruttare la paura dei profughi per aumentare il loro consenso. Come sta facendo anche Donald Trump con la sua campagna elettorale negli Stati Uniti.
Riassumendo: danni fisici, umani e politici su livelli senza precedenti; continue minacce alla sicurezza; il risveglio dei fascismi. Forse tutte queste cose sono meglio dell’alternativa che sembrò così sgradita al Parlamento britannico e al presidente degli Stati Uniti. Ma difficilmente rappresentano un successo formidabile.
© 2016 – The Washington Post