La truffa su Facebook delle vendite Ray-Ban per beneficenza
È una delle più efficaci e raffinate e prosegue ormai dal 2012, anche in Italia: di recente ne ha scritto persino il Washington Post
La truffa delle vendite di occhiali da solo Ray-Ban per beneficenza è una delle più efficaci attualmente in circolazione e prosegue ormai da anni. In genere la truffa comincia con un messaggio in cui un amico di Facebook invita i suoi contatti a un evento, una vendita a basso prezzo di occhiali Ray-Ban i cui proventi, dice, verranno destinati a non meglio specificate associazioni di beneficenza. Basta scrivere nella barra di ricerca di Facebook “Ray-Ban beneficenza” per vedere immediatamente moltissimi risultati. Le pagine portano in genere a siti internet disegnati come fossero negozi ufficiali Ray-Ban.
Si tratta di siti fasulli, il cui scopo è spingere i visitatori a fare un acquisto in modo da poter rubare i dati della loro carta di credito. Luxottica, la società di Belluno proprietaria del marchio Ray-Ban, ha dedicato un team legale e collabora con una società che si occupa di sicurezza su internet per rintracciare questi siti e farli chiudere, ha raccontato un articolo sul Washington Post. È però un lavoro molto difficile: non appena vene chiuso un sito, i truffatori si trasferiscono semplicemente su un nuovo dominio. È una truffa abbastanza raffinata, sia per il metodo utilizzato sia per la scelta di combinare vendite di beneficenza con gli occhiali Ray-Ban, un prodotto considerato di lusso ma con prezzi in genere piuttosto accessibili. Gli annunci che si possono trovare in questi giorni parlano di vendite di beneficenza a favore dei bambini siriani.
La truffa comincia con un malware, un programma che i truffatori usano per prendere possesso dell’account Facebook di una persona e creare la pagina-evento che conduce al sito con il finto negozio. A quel punto, i truffatori fanno partire centinaia, a volte migliaia di inviti. Basta che una sola persona faccia un acquisto per ripagare l’intera operazione. Secondo gli esperti di sicurezza consultati dal Washington Post, dietro l’operazione ci sarebbe un gruppo di hacker cinesi. Lo scorso gennaio, La Stampa ha dedicato un articolo alla truffa, specificando che le prime tracce risalgono al 2012.