Donald Trump ha un sacco di debiti
Quasi il doppio di quanto si sapeva: il New York Times teme che una volta eletto possa diventare ricattabile dai suoi creditori
Un’inchiesta del New York Times ha scoperto che Donald Trump ha debiti per 650 milioni di dollari, più del doppio di quanto aveva dichiarato in un documento pubblico presentato in occasione della sua candidatura a presidente degli Stati Uniti per il partito Repubblicano. I giornalisti del Times hanno anche scoperto che Trump deve parte di questa somma a una serie di entità estere, tra cui anche alcune banche controllate dal governo cinese: cosa che secondo alcuni esperti lo renderebbe vulnerabile alle richieste di società e uomini d’affari americani e stranieri, nel caso in cui venisse eletto presidente.
Per Trump le ultime settimane sono state particolarmente difficili. Ha dovuto cambiare per la seconda volta lo staff che guida la sua campagna elettorale e sta calando nei sondaggi. Le sue numerose gaffe e le sue dichiarazioni roboanti ed esagerate hanno danneggiato ulteriormente la sua immagine, così come ha fatto il lungo litigio pubblico con i genitori di un soldato morto eroicamente in combattimento. Di recente Trump ha anche suggerito che qualcuno dovrebbe sparare a Hillary Clinton in caso venga eletta presidente e che Obama ha fondato l’ISIS. L’inchiesta del New York Times aggiunge ulteriore pressione su Trump e sul Partito Repubblicano che lo appoggia.
Quello di Trump è sempre stato un patrimonio i cui esatti contorni sono difficili da tracciare, dato che in gran parte passa da società costruite come “scatole cinesi”. Uno dei debiti più imbarazzanti rivelati dal New York Times è quello che un consorzio di banche ha concesso ad una sua società per acquistare un palazzo di uffici nella Avenue of the Americas di New York, una delle strade più prestigiose di Manhattan. Trump possiede il 30 per cento del palazzo attraverso una complicata rete di società a responsabilità limitata. Queste società hanno acceso un mutuo concesso da quattro banche tra cui Bank of China, controllata dal governo cinese, che Trump ha ripetutamente attaccato nella campagna elettorale; e Goldman Sachs, una banca d’affari americana che Trump accusa di “controllare” la sua rivale Hillary Clinton, per via di una donazione da 650mila dollari che la banca ha fatto alla fondazione dei coniugi Clinton.
Gli avvocati delle società che possiedono il palazzo nella Avenue of the Americas hanno precisato al New York Times che Trump non è personalmente responsabile di questo debito, grazie alla loro natura di società a responsabilità limitata. Il giornale specifica che, in ogni caso, il valore dei palazzi e dei debiti contratti per acquistarli hanno comunque un impatto considerevole sulla ricchezza del candidato alla presidenza degli Stati Uniti. In altre parole, in caso di fallimento, Trump non dovrebbe pagare personalmente il rimborso del mutuo, ma sarebbe comunque considerevolmente più povero.
Il New York Times cita numerosi altri casi di debiti contratti alle società che fanno capo a Trump per acquistare quote di edifici, e non ancora saldati. In nessuno di questi casi i debiti sono stati resi pubblici. Gli avvocati di Trump hanno fatto sapere di non essere obbligati a rendere pubblici i debiti contratti per acquistare proprietà di cui le società di Trump controllano meno del 100 per cento delle quote. Il giornale ha scoperto però alcuni casi in cui i debiti sono riconducibili direttamente a Trump: debiti che, in caso di insolvenza, dovrebbero essere restituiti personalmente dal candidato repubblicano. Per esempio Trump ha un mutuo da 26 milioni di dollari legato a un palazzo di Wall Street.
Secondo il giornale, la differenza tra i 350 milioni di dollari di debito dichiarati da Trump e i 650 scoperti nel corso dell’inchiesta non è da attribuire a una mancanza da parte di chi ha compilato la dichiarazione pubblica del candidato repubblicano, ma è un problema congenito del “Personal Financial Disclusure Module” (PFD), la dichiarazione che tutti i candidati alla presidenza degli Stati Uniti sono obbligati a compilare. È un modulo pensato per candidati con un patrimonio molto più semplice e lineare di quello di Trump. Ad esempio, il modulo richiede ai candidati di dichiarare investimenti e debiti non in cifre precise, ma di indicare entro quale intervallo si trovano. L’intervallo più ampio ha come “tetto” quello di 50 milioni di dollari. Un prestito da 160 milioni ricevuto da Trump nel 2015 è stato quindi indicato nel modulo nella categoria “50 milioni” perché non è possibile indicare cifre maggiori.
Secondo il New York Times questa situazione presenta due problemi principali. Il primo è che in caso di elezione alla presidenza degli Stati Uniti, Trump si troverà in una posizione di grave conflitto di interessi. Come presidente inoltre avrà ampio margine di manovra sulle politiche fiscali e monetarie che a loro volta potrebbero avere un grosso impatto sulle fortune del suo ramificato impero immobiliare. Trump ha detto che in caso di vittoria saranno i suoi figli a guidare le imprese di famiglia, ma questo non gli impedirà di adottare politiche in grado di favorire i suoi interessi.
Il secondo problema è che la sua intricata situazione debitoria lo renderà vulnerabile ai ricatti di numerosi uomini d’affari e società finanziarie. Secondo Richard W. Painter, professore di legge all’Università del Minnesota e, dal 2005 al 2007, avvocato per le questioni etiche della Casa Bianca durante la presidenza di George W. Bush, «le fortune di Trump dipendono dalla sua abilità di ottenere credito e ottenere prestiti per le sue società. Al momento non abbiamo abbastanza informazioni su quanto a fondo vadano gli accordi finanziari che ha stretto negli Stati Uniti e nel resto del mondo». In altre parole, la ricchezza di Trump dipende dai prestiti che ha ricevuto e dal credito che gli è stato concesso. Se Trump sarà eletto presidente, chiunque abbia esteso questi prestiti potrà esercitare su di lui un controllo la cui estensione non è ancora del tutto chiara.