Donald Trump si sta fregando da solo?
Le stesse ragioni della sua ascesa ora lo stanno facendo andar male come pochi altri candidati nella storia recente: e per tirarsi fuori dai guai ha deciso persino di rilanciare
di Francesco Costa – @francescocosta
A circa due mesi e mezzo dalle elezioni presidenziali statunitensi, la campagna elettorale ha preso una forma che ha pochi precedenti nella storia politica americana recente: nei sondaggi nazionali la candidata del Partito Democratico, Hillary Clinton, ha un vantaggio medio di circa 6-8 punti percentuali sul candidato del Partito Repubblicano, Donald Trump; secondo alcuni sondaggi il suo vantaggio è persino superiore ai 10 punti. Se le elezioni dell’8 novembre finissero così, sarebbe la più larga vittoria dalla rielezione di Ronald Reagan nel 1984. Come siamo arrivati a questo punto?
Meno di un mese fa, dopo la fine della convention del Partito Repubblicano a luglio, Donald Trump era di poco davanti a Hillary Clinton nella media dei sondaggi nazionali. Circolavano molti commenti – preoccupati o entusiasti, secondo il punto di vista – che consideravano Trump pienamente in corsa se non addirittura favorito; uno particolarmente popolare sui social network, firmato dal regista Michael Moore, dava addirittura per scontata e inesorabile la vittoria di Trump (ora Moore ha cambiato idea, ma invece di dire che si è sbagliato sostiene con la stessa certezza che Trump stia perdendo apposta). In quei giorni, però, la grandissima parte dei giornalisti e dei sondaggisti statunitensi avvertiva di prendere quei dati con molta cautela, se non addirittura di non guardarli affatto: i precedenti storici dicono che ogni candidato dopo la convention del suo partito attraversa una breve risalita nei sondaggi, il cosiddetto “convention bounce”. Sarebbe stato meglio aspettare la convention dei Democratici per farsi un’idea sullo stato della corsa, se non addirittura il momento in cui il rimbalzo frutto delle convention si sarebbe assorbito.
La media dei sondaggi nazionali negli ultimi 30 giorni.
Anche Hillary Clinton ha avuto un rimbalzo nei sondaggi dopo la convention del suo partito a Philadelphia, più consistente di quello ottenuto da Trump, che l’ha riportata in testa nella media nazionale: ma a quel punto sono successe una serie di cose che hanno gonfiato ulteriormente quel vantaggio, trascinando i consensi di Trump al punto più basso di questa campagna elettorale. Dagli insulti rivolti ai genitori di un soldato americano morto in Iraq alla lite con i pezzi grossi del suo partito, dalle sfacciate bugie raccontate sull’Iran o sui dibattiti televisivi alla dichiarazione preventiva sul fatto che le elezioni saranno truccate, Donald Trump ha commesso errori anche molto gravi praticamente ogni giorno, facendo parlare moltissimo di sé ma sempre per le ragioni sbagliate.
Questi errori si sono sommati – oltre che al rimbalzo post-convention di Clinton – ad altri due fattori.
Il primo è la crescente ostilità di pezzi dell’establishment e dell’elettorato del Partito Repubblicano: nelle ultime settimane, infatti, decine e decine di politici e funzionari Repubblicani del presente e del passato hanno detto che non intendono votare Trump e che invece voteranno Clinton, sostenendo che di fronte a un candidato così estremista e pericoloso «bisogna mettere il paese davanti al partito» (a breve dovrebbe nascere un comitato ufficiale di “Republicans for Hillary”).
Il secondo è lo stile senza precedenti con cui la campagna elettorale di Trump è organizzata e gestita: non c’è una vera sede ufficiale del comitato (la cosa che più gli somiglia sono gli uffici della Trump Tower a New York), non c’è una solida operazione di raccolta fondi (Clinton ha disponibilità immediata di circa quattro volte i fondi a disposizione di Trump), non ha ancora trasmesso un solo spot televisivo (Clinton al contrario sta investendo centinaia di milioni di dollari in spot televisivi), non ha una struttura di raccolta e studio dei dati sull’elettorato, non ha una strategia politica e comunicativa che non sia basata sul fatto che Trump dica e faccia qualsiasi cosa voglia in qualsiasi momento. La settimana scorsa, per esempio, Trump ha tenuto un solenne discorso sull’economia per cercare di resettare la campagna elettorale e dare ai media qualcosa di positivo di cui parlare, qualcosa che non fossero i suoi errori; il giorno dopo, invece che insistere su quel messaggio, ha alluso al fatto che Clinton dovrebbe essere uccisa; il giorno dopo ancora ha detto che Obama ha fondato l’ISIS. In entrambi i casi ha detto poi di essere stato frainteso, che non è il massimo per un candidato che ha fondato la sua popolarità sulla capacità di “parlar chiaro” e “dire le cose come stanno”.
La media nazionale dei sondaggi, peraltro, da sola non rende l’idea di quanto sia messo male Trump in questo momento. Le elezioni presidenziali statunitensi non prevedono un collegio nazionale ma un voto stato per stato: e Trump oggi è indietro – in alcuni casi molto indietro – in tutti gli stati storicamente in bilico tra Democratici e Repubblicani. Per come è distribuito l’elettorato americano, è noto da mesi che Trump ha bisogno di vincere in Pennsylvania, Florida, Ohio e North Carolina, se vuole arrivare alla Casa Bianca: in questo momento è sotto in media di 4,5 punti percentuali in Florida, di 2,6 punti in Ohio, di 9,2 punti in Pennsylvania, di 2 punti in North Carolina. In ognuno di questi stati i sondaggi più recenti indicano dati ancora peggiori: il trend, insomma, va dalla parte di Hillary Clinton. I dati storici sulle elezioni statunitensi dicono che i sondaggi successivi alle convention somigliano molto di più al risultato elettorale rispetto a quelli realizzati prima delle convention: dal 1972 il candidato in vantaggio nei sondaggi a questo punto della campagna elettorale ha sempre ottenuto più voti del suo avversario. Clinton ha oggi l’87 per cento di probabilità di vittoria secondo l’algoritmo statistico del sito FiveThirtyEight e l’88 per cento secondo quello del New York Times.
Quanto i sondaggi dopo le convention assomigliano al risultato finale delle elezioni.
Le ragioni politiche di questo collasso, e dei danni prodotti dagli errori di Trump, sono piuttosto facili da individuare: in un paese abitato da sempre meno bianchi, e in cui i non bianchi votano sempre di più a sinistra, Trump ha un consenso praticamente nullo tra le minoranze etniche (letteralmente lo 0 per cento tra i neri in Ohio, per esempio). Anche coi bianchi le cose gli stanno andando male, soprattutto tra le donne (tra cui Clinton è in vantaggio di oltre 20 punti) e tra i giovani (tra chi ha meno di trent’anni solo il 9 per cento intende votare Trump). Le proposte politiche radicali e i toni estremisti di Trump, che gli hanno permesso di vincere le primarie tra i militanti del Partito Repubblicano, si stanno rivelando tossiche per l’elettorato generale: l’unico segmento demografico che continua a preferire Trump sono i maschi bianchi di una certa età e non laureati, troppo pochi per vincere le elezioni in un paese da 320 milioni di abitanti.
A circa due mesi e mezzo dalle elezioni presidenziali statunitensi, il tempo per cambiare le cose comincia a essere poco, e il Partito Repubblicano è sempre più innervosito dall’indisponibilità a condurre una campagna elettorale normale e preoccupato che una sua grave sconfitta a novembre possa finire col permettere ai Democratici di recuperare la maggioranza al Congresso. La candidatura di Trump per il partito non può più essere messa in discussione, ma da giorni circolano voci di un possibile disimpegno economico e logistico del partito dalla sua campagna elettorale per concentrare le risorse sulle elezioni per il Congresso. Nelle ultime ore Trump ha effettivamente cercato di scuotere il suo comitato elettorale, ma lo ha fatto alla Trump, diciamo.
È stato annunciato infatti che il comitato elettorale di Trump avrà un nuovo campaign manager e un nuovo amministratore delegato, i due ruoli più importanti: il primo è responsabile dell’organizzazione generale, il secondo della strategia politica e comunicativa. Il nuovo amministratore delegato sarà Stephen Bannon, presidente di Breitbart, società che edita un omonimo sito di news di estrema destra, molto anti-establishment, urlato e complottista; la nuova campaign manager sarà Kellyanne Conway, un’esperta sondaggista e analista che collabora da decenni col partito. Inoltre, Trump ha annunciato che comincerà a investire in spot televisivi e che si preparerà ai confronti del prossimo autunno con Hillary Clinton avvalendosi della consulenza di Roger Ailes, l’ex capo e fondatore di Fox News accusato di essere un molestatore sessuale seriale. Bannon ha promesso che Trump sarà un candidato più aggressivo ed efficace. È come se Trump avesse deciso che il suo problema in queste settimane sia stato essere stato troppo controllato e diplomatico, troppo come lo vorrebbe l’establishment del partito, e debba invece essere più Trump; altri hanno letto questa scelta anche come un modo per depotenziare Paul Manafort, che rimane formalmente presidente del comitato elettorale ma non avrà più molti poteri, e sul quale circolano storie sempre più inquietanti e consistenti sui suoi rapporti con la Russia.
Il fatto che a oggi Trump sia evidentemente sfavorito, però, non rende scontata una sua sconfitta alle elezioni di novembre. Così come Clinton in queste settimane ha accumulato un grande vantaggio praticamente per l’autodistruzione del suo avversario, potrebbe avvenire il contrario: Hillary Clinton ha ancora diversi problemi di consenso e credibilità, è impopolare come nessun altro candidato del presente e del recente passato, Trump escluso, e Wikileaks dice di avere altre informazioni delicate e compromettenti sul suo conto e sugli affari controversi della fondazione benefica di famiglia. Senza contare che, fanno notare molti giornalisti politici americani, in questo momento storico non si può escludere nemmeno che un evento globale particolarmente traumatico – un grande attentato terroristico, per esempio – possa cambiare radicalmente le priorità e l’umore dell’elettorato statunitense. Due mesi e mezzo sono pochi per rimontare uno svantaggio così ampio in situazioni normali, ma c’è una sola cosa su cui sono d’accordo tutti gli analisti e gli esperti di politica americana: questa non è una situazione normale.