Mohammed Madouh, che non è alle Olimpiadi
La sua nazione, il Kuwait, è stata sospesa dal CIO per colpa di una legge controversa e lui sta facendo i conti con la frustrazione dopo anni di allenamenti
di Chuck Culpepper – The Washington Post
Sabato a notte fonda, Mohammed Madouh era seduto da solo al buio nel salotto della sua casa in Kuwait, a sei fusi orari di differenza da Rio de Janeiro, l’unica luce nella stanza era quella della televisione. Mentre guardava la cerimonia di apertura delle Olimpiadi indossando il costume nella nazionale di nuoto del Kuwait, le sue sensazioni erano un misto di dispiacere e rabbia. Mentre la seguiva annoiato le gare del nuoto, Madouh ha provato emozioni diverse, che ormai ha imparato a gestire. A ottobre, il Kuwait è stato sospeso dalle gare internazionali dal Comitato Olimpico Internazionale per delle leggi del governo che permettevano di interferire nelle federazioni sportive del paese. I sogni – alla portata – di Madouh sono stati quindi negati da forze molto al di sopra del suo controllo, un’ulteriore prova del fatto che quando la politica interferisce con le Olimpiadi, a pagarne il prezzo alla fine sono gli atleti. «Ora si è rabbuiato tutto. E non si può immaginare più niente allo stesso modo», ha detto Madouh, che ha 29 anni e si è laureato alla Arizona State University. «Quando arriva una sospensione, tutti i tuoi sogni e i tuoi progetti diventano nebulosi e scuri».
Gli atleti che hanno subìto sospensioni o boicottaggi in passato potrebbero essersi riconosciuti nell’inconfondibile tristezza negli occhi castani di Madouh – o nell’angoscia smorzata delle sue frasi – durante l’intervista che ha dato a Dubai a maggio. Probabilmente hanno provato empatia, e non solo vicinanza, quando Madouh ha raccontato di sentire «pizzicare tutti i muscoli del corpo… le braccia diventano più pesanti e a volte non si riesce nemmeno a camminare. Ti viene la nausea. Lo stomaco è un po’ sottosopra. Ma poi lo superi, giorno dopo giorno, finché non senti più niente». Quegli stessi atleti avrebbero annuito quando domenica Madouh ha scritto: «Continuo a pensare a tutti gli sforzi e ai soldi spesi per allenarmi». Fino all’aprile di due anni fa, qualificarsi per le Olimpiadi di Rio sembrava un obiettivo plausibile. Per Madouh sarebbe stata la seconda partecipazione, otto anni dopo Pechino, dove fu il primo nuotatore a rappresentare il Kuwait, un paese di soli 2,7 milioni di abitanti (ottenendo un record personale di 22,83 nei 50 metri stile libero), e nove anni dopo essersi qualificato in Indonesia con un tempo di 23,01, essere uscito dalla piscina, aver visto sua madre in tribuna, indicato con la mano il suo tempo sul tabellone ed essersi messo a piangere. Madouh era poi tornato alla Arizona State University, dove era entrato in una sala riunioni per trovare i suoi colleghi che lo applaudivano. La qualificazione a Rio sarebbe stato il coronamento dei suoi sforzi, e la possibilità si era intravista a Eindhoven nell’aprile del 2015, quando aveva nuotato in 23,42, 23,35 e 23,29, riuscendo quasi a raggiungere la finale e il tempo che gli sarebbe valso le Olimpiadi di Rio, 23,05. «Mi dicevo: “Ci sono. Ce la farò”», ha raccontato. «”Non posso fallire. Finirò la mia carriera alle Olimpiadi. Poi tornerò a casa, mi troverò un altro lavoro e vivrò la mia vita”».
Dopo essersi trasferito a Dubai nel 2013 per entrare nel club Hamilton, la possibilità di partecipare alle Olimpiadi di Rio è sempre rimasta sospesa. Madouh si svegliava ogni giorno alle 4,30 e faceva colazione con dei panini al tacchino per darsi energia. Il tutto in una cultura, quella della regione del Kuwait, in cui cercare di diventare un atleta professionista può essere una cosa rara. Madouh è andato avanti nonostante le domande dei membri della sua famiglia allargata, che gli chiedevano perché avesse scelto il nuoto invece della possibilità di sposarsi. Era riuscito anche a interrompere il periodo negativo della sua carriera tra il 2009 e il 2013. Quando tornava a casa in Kuwait, i suoi compagni di squadra della nazionale lo incoraggiavano, dicendogli che era quasi in Brasile. Ai mondiali dell’agosto 2015 a Kazan, in Russia, aveva nuotato in 23,50 secondi, un tempo di tutto rispetto considerando che Madouh era in Ramadan e digiunava durante il giorno.
Al ritorno da Kazan, si era accorto dei segnali di possibili problemi leggendo un giornale a Dubai. La sospensione del Kuwait arrivò a fine ottobre, lasciando però spazio a una debole speranza: il CIO aveva già dato una sospensione al Kuwait nel 2012, ritirandola però in tempo per le Olimpiadi di Londra di quell’anno. Alla fine dell’inverno, il Kuwait e il CIO non riuscirono a trovare una soluzione comune, e la sospensione rimase in vigore. A giugno, il parlamento del Kuwait aveva fatto qualche modifica alla legge sullo sport contestata dal CIO, ma la sospensione rimase. Il Kuwait denunciò allora per un miliardo di dollari il CIO, che aveva annunciato che gli atleti del Kuwait avrebbero potuto gareggiare sotto la bandiera olimpica. Il caos si intensificò.
Nel frattempo, non potendo partecipare a nessuna gara internazionale dall’agosto del 2015 e svuotato dalla preoccupazione, il 24 febbraio Madouh decise di lasciare la sua squadra, un momento che ha definito «molto triste», in cui però ha riconosciuto di «non poter interferire con il lavoro dei suoi compagni, nuotando per divertimento». Madouh non avrebbe più avuto la spinta di compagni di squadra come Velimir Stjepanovic, il serbo che arrivò terzo nei 200 farfalla alle Olimpiadi di Londra. Ai campionati arabi di Dubai di aprile, Madouh aveva un pass per stare a bordo piscina e il cuore spezzato. Alcuni nuotatori non erano a conoscenza della sospensione, e gli chiesero quando avrebbe nuotato. Madouh smise di andare a vedere le gare dopo tre giorni.
Madouh non ha accettato la proposta di nuotare sotto la bandiera olimpica. «Il punto è che sono andato alle Olimpiadi grazie al Kuwait e grazie alla federazione di nuoto, da cui sono arrivati tutti i finanziamenti. Sono molto riconoscente per questo», ha detto. A maggio, tutto questo sembrava comunque irrilevante. Madouh ha capito che avrebbe avuto bisogno di tre mesi di allenamento per riprendere la forma migliore. Lo stress aumentava. Ritirandosi dal nuoto, sarebbe finito anche il suo «congedo per sport» a Dubai, consentito dal governo del Kuwait. Sua madre Roquiya, la prima a incoraggiarlo a fare nuoto 19 anni fa, gli ha detto al telefono: «Devi prepararti per un obiettivo più grande, decidere di chiudere con il nuoto e andare avanti». Mentre la complicata e poco chiara lotta all’interno del Kuwait tra il governo, il Comitato Olimpico Internazionale e le varie federazioni sportive proseguiva, Madouh ha detto che «da atleta, tutto quello che vedo è come tutti quanti cerchino di dimostrare chi ha ragione e chi ha torto, invece di mettersi intorno a un tavolo e capire cosa fare».
Poco prima dell’alba di sabato, Madouh era seduto da solo, mentre tutti dormivano. All’inizio, «vedere tutti i miei amici sfilare durante la cerimonia olimpica alzando la propria bandiera, mentre la nostra era esclusa» è stato «orribile». Madouh ha visto i nuotatori del Kuwait Faye Sultan e Abbas Qali camminare sotto la bandiera olimpica e si è sentito «orgoglioso di essere stato parte dei loro allenamenti». Ha provato a dormire, ma la frustrazione glielo ha impedito. «Adesso», ha scritto Madouh, «l’unica cosa a cui penso è fare tutto quello che è necessario per contribuire a far riammettere il nostro paese, in modo che la prossima generazione non debba soffrire».
© 2016 – The Washington Post