Il Trump di Doonesbury
Il Washington Post ha intervistato il creatore della popolare striscia a fumetti americana, che da quasi trent'anni segue l'evoluzione di Trump
di Michael Cavna – The Washington Post
Quando quasi 29 anni fa apparve per la prima volta su Doonesbury, Donald Trump ne fu lusingato. Da più di 28 anni, però, il candidato del Partito Repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti non lo vede più tanto come un complimento. Garry Trudeau, il creatore della famosa striscia a fumetti Doonesbury – vincitrice di un premio Pulitzer e a lungo pubblicata anche sul Post – fa satira sul magnate americano del settore immobiliare dal 1987, quando il mondo di Doonesbury si immaginò per la prima volta Trump come candidato presidente. Da allora, Trump è stato spesso oggetto delle attenzioni del fumetto, che lo ha messo in ridicolo per il modo in cui ha trattato le sue mogli e le altre donne, i suoi dipendenti, gli altri suoi sottoposti, e, in generale, chiunque (forse tutti) giudicasse inferiore a se stesso.
«È sempre stato impossibile da ignorare», ha raccontato Trudeau al Washington Post. «È come avere un grosso campanaccio chiassoso fisso in testa. Ho appena fatto quattro strisce domenicali di fila su Trump: è una cosa assurda». Il nuovo libro di Trudeau – Yuge! 30 Years of Doonesbury on Trump, pubblicato da Andrews McMeel Publishing e uscito negli Stati Uniti il 5 luglio – riflette questi decenni di grosse e chiassose strisce su Trump. Prima dell’uscita del libro, il Washington Post ha incontrato Trudeau per parlare di Trump.
MICHAEL CAVNA: Ti ricordi quando Trump è finito nel tuo radar per la prima volta, e se l’impulso a fare satira su di lui stato immediato o graduale?
GARRY TRUDEAU: Non saprei. È come l’inizio dell’influenza: quand’è che ti accorgi di averla presa? A metà degli anni Ottanta – probabilmente dopo il primo progetto di Trump, il Grand Hyatt – il suo nome iniziò a finire in grassetto sui giornali di tutta New York. Quando nel 1987 iniziò a comprare intere pagine di giornale per i suoi annunci, era già finito su abbastanza copertine di riviste da poter essere presentato a un pubblico più ampio. All’inizio Trump disse di essere lusingato [dalla sua apparizione su Doonesbury], ma poi le cose cambiarono.
MC: Cosa delle azioni o della buffonate di Trump ti spinse a prenderlo in giro immaginandolo come candidato? Riguardando quelle strisce di Doonesbury sembra quasi che Trump sia un soggetto irresistibile ai tuoi occhi.
GT: Nel 1987 Trump si era già messo in ridicolo a New York. Ma era totalmente innocuo, un soggetto buono per Spy. I suoi annunci sui giornali furono il primo momento che mi fece dire “oh-oh”, e la mia reazione fu una specie di stroncatura d’istinto, preventiva. La sua megalomania era così sopra le righe che ignorarla sarebbe stata una negligenza da un punto di vista comico. Ovviamente ora sappiamo che la sua era una strategia a lungo temine. Mi dispiace di non averlo capito.
Dall’archivio di Doonesbury
MC: Nell’introduzione del tuo libro c’è un ritaglio di giornale in cui Trump risponde a te e a Doonesbury. Quale fu la tua reazione all’epoca? Fu una specie di conferma del fatto che la tua satira aveva colpito nel segno?
GT: Sì, certo. Le fascette sulle copertine dei miei libri sono sempre fatte di frasi contro le strisce. Capisci che una striscia è tagliente quando qualcuno dice “ahia”. Ma questa è solo una piccola parte di quello che faccio, e non mi scelgo i bersagli per suscitare reazioni negative. Doonesbury è prima di tutto una striscia incentrata su un personaggio, ma per colpa di alcune rumorose polemiche che ci sono state negli anni spesso è stata scambiata per un progetto politico.
MC: Tu definisci Trump uno «stronzo». È più facile fare satira sugli stronzi, un po’ come succede ai bravi attori che sono attirati dal ruolo di cattivi?
GT: Assolutamente. La parola “stronzo” ha un significato ben preciso, viene capito universalmente. Uno stronzo è un prepotente insopportabile a cui piace umiliare gli altri, che si prende tutti i meriti e scarica la colpa sugli altri. Nella mia vita ho visto molti presidenti deluderci: abbiamo avuto un disonesto, un guerrafondaio e diversi donnaioli, ma mai un presidente che fosse uno stronzo totale. È qui che mi sono sbagliato: ho dato per scontato che la politica avrebbe respinto una personalità così tossica, che poi è anche il motivo per cui pensavo che Chris Christie non avrebbe avuto seguito. Ora siamo davanti alla chiara possibilità di ritrovarci non con uno, ma con due stronzi alla Casa Bianca: uno come presidente e uno come vice. Questo dimostra quanto capisco di politica.
MC: Guardando indietro agli ultimi trent’anni, sei sembrato capace di cogliere molto velocemente l’essenza immutata di Trump. Come mai? Perché si presentava come uno stereotipo da fumetto, un ingordo rampollo vestito alla Boss Tweed? O perché i media che dagli anni Ottanta in poi gli hanno dato così tanta attenzione che ti avevano messo a disposizione un sacco delle sue migliori uscite in cui scavare? Qual è stato il tuo segreto, al di là tua capacità di far satira affinata nel tempo?
GT: Grazie, ma hai ragione. All’inizio fu l’insaziabile fame di attenzione di Trump a mettere le basi, per quanto sgradite. È sempre stato impossibile da ignorare. È come avere un grosso campanaccio chiassoso fisso in testa. Ho appena fatto quattro strisce domenicali di fila su Trump: è una cosa assurda. Ho decine di altri personaggi e di archi narrativi da scrivere, e molte altre cose di cui parlare. Ovviamente, i commentatori di tutte le strisce hanno avuto lo stesso problema.
Dall’archivio di Doonesbury
MC: Quando hai avuto per la prima volta la sensazione che Trump sarebbe potuto essere un vero candidato alla presidenza, uno in grado di vincere?
GT: Sarà stato ad aprile. Su questo, non sono stato più sveglio degli altri.
MC: C’è qualcosa dell’ascesa di Trump come candidato che ha cambiato la tua percezione dell’elettorato?
GT: Sì: non avrei mai immaginato che potesse essere così facile raggirare le persone. C’è una cosa che le persone che amano Trump non capiscono: lui non li ama. Pensavo che ormai l’avessero smascherato. Queste persone sono preoccupate e si sentono abbandonate dall’economia, molti di loro sono in difficoltà. Trump ha una parola per definire quelli come loro: perdenti. E lui non ha mai avuto tempo per i perdenti. Non ha tempo per sedersi con loro in cucina, andare ai loro barbecue o ascoltare i loro problemi. Sono i perdenti nel loro complesso che portano Trump dove vuole arrivare. Ma Trump può sempre disinfettarsi le mani e tornare quando vuole sul suo aereo per andare a dormire nel suo attico. Non c’è mai stato un elettorato guardato con tanto sdegno dal suo presunto paladino.
MC: Qual è l’aspetto di Trump che preferisci mettere in ridicolo nelle tue strisce?
GT: Probabilmente il suo uso della lingua. Secondo un’analisi di USA Today il linguaggio dei suoi discorsi è da quarta elementare, ma questo non vuol dire che non sia fantasioso. Chi altro usa espressioni come «disgustoso con le bugie», «vinceremo con l’esercito» o «questo ve lo dico»? Non mi metto ad aggiustare molto i suoi strani tic linguistici, mi comporto più come uno stenografo. Ma risistemarli per farci satira ha un che di artistico.
MC: Ti capita mai di pensare che Trump sia diventato immune alla satira?
GT: Una volta non lo era, ma ora ci sono tutte principali società di media ad assorbire la sua attenzione. Oggi non entrerei mai nella lista di quelli che ha bloccato su Twitter.
MC: Nei decenni il “tuo” Trump è cambiato visivamente: è passato dall’essere una figura snella e cupa a diventare un personaggio con un po’ di doppio mento, e oggi ha un riporto multicolore, è ingrassato ed è leggermente curvo. Puoi dirci qualcosa dell’evoluzione di Trump in Doonesbury e di quanto intenzionalmente l’hai fatto cambiare nei decenni?
GT: Disegnare Trump è un viaggio, non una meta. Studio i suoi capelli per riprodurli da quando erano castani, molto prima che Trump li facesse diventare color fuoco. Ogni fumettista lo disegna in modo diverso perché abbiamo tutti un’idea diversa di come riesca a ottenere quell’effetto, soprattutto ora che ha una certa età. C’è stato un periodo in cui i suoi capelli si stavano diradando, ora siamo passati a una grossa cotonatura dorata. Non è bello, ma qualcuno deve pur disegnarlo.
MC: Sei sembrato capace di prevedere, tra le altre cose, il suo passaggio ai reality show e la sua fissazione per le dimensioni e le sue capacità sessuali nei comizi in giro per gli Stati Uniti. Ci sono altre storie o archi narrativi o aspetti apparentemente preveggenti del Trump di Doonesbury di cui sei particolarmente orgoglioso, o che ti hanno sorpreso per come si sono poi dimostrati simili alla realtà?
GT: Per le storie su Trump di solito partivo da qualsiasi stramba impresa in cui fosse coinvolto all’epoca, quindi non voglio prendermi la colpa di niente di tutto questo. Visto che faccio le strisce tutti i giorni, ogni tanto mi capita di avere fortuna con i tempi, ma non posso dire in buona fede di aver cercato di mettere in guardia nessuno. Dopo le tre finte candidature nel 1987, nel 2000 e nel 2012, mi immaginavo che alla fine Trump si sarebbe candidato davvero, soprattutto dopo aver avuto un assaggio del suo gradimento nei sondaggi grazie alla teoria del complotto sul luogo di nascita di Obama. Però davo anche per scontato che si sarebbe ritirato in fretta, dopo aver sfruttato al massimo l’effetto promozionale.
MC: In 46 anni hai disegnato e preso in giro molti politici. Dove si posiziona Trump in questo gruppo illustre?
GT: Non posso paragonare Trump ad altre figure politiche, che sono tutte esseri umani relativamente normali. Trump invece è davvero un fumetto, e io l’ho sempre trattato come tale. È semplicemente uno dei personaggi della mia striscia, e gli altri personaggi lo trattano come se fosse un loro pari. Non ho dovuto cambiare niente.
MC: Se a novembre Trump dovesse vincere, ti trasferirai in Canada – che non è così lontano da Saranac Lake, da dove viene la tua famiglia – o rimarrai per goderti la possibilità di fare satira su Trump per almeno altri quattro anni?
GT: Ora che le primarie sono finite, le elezioni sono diventate molto semplici, sono una corsa a due. Se si eliminano le solite etichette e le filosofie dei partiti – come si dovrebbe fare – è una scelta forte tra una persona sana di mente e un’altra con un grave disturbo della personalità. Se scegliessimo quest’ultima, sarei tentato di tornare alla terra della mia famiglia – immigrati francesi che entrarono di nascosto a Montreal – ma credo che rimarrei qui, almeno finché le leggi sulla diffamazione non saranno irrigidite.
Dall’archivio di Doonesbury
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