Perché ci piacciono le cose pucciose
Cioè quelle carine, tenere e dolci, come i cuccioli di panda: dipende dalla nostra cultura, ma in generale è perché suscitano un senso di protezione
In italiano non esiste un modo accettato dall’Accademia della Crusca per descrivere cose come l’aspetto di un cucciolo di panda o di un disegno di Hello Kitty: sono carini, teneri, dolci, ma un po’ più di questo. Su internet molti usano il neologismo “puccioso” ma è diffuso anche l’aggettivo giapponese kawaii, che indica un concetto simile e arriva da un posto dove quel tipo di estetica è molto più presente che in Italia. Kawaii non indica solo ciò che è esteticamente carino e tenero – cuccioli e bambini piccoli – ma descrive anche un tipo di comportamenti e qualità caratteriali più ampi: in Giappone, per esempio, viene usato per le donne che si vestono da giovani studentesse o per le ragazze che si travestono da personaggi di fumetti manga. Il giornalista americano Neil Steinberg, in un lungo reportage per la rivista scientifica Mosaic, ha provato a mettere insieme quello che sappiamo sulle cose pucciose e sul perché ci piacciano così tanto, partendo dalla storia di una mascotte a forma di orso diventata incredibilmente popolare in Giappone.
La storia di Kumamon, un orso molto puccioso
Kumamon è un orso nero con le guance rosse che fa da mascotte alla prefettura di Kumamoto, nel sud del Giappone. In tutto il paese è molto diffusa per le città, gli aeroporti e altre istituzioni l’usanza di avere uno “yuru-chara” o “yuru-kyara“, cioè un personaggio che appaia adorabile e tenero, per promuovere la propria immagine e attrarre turisti o clienti. Come Hello Kitty, Kumamon non parla e non ha una vita sentimentale o sessuale, ma ha un carattere preciso: è descritto come “molto birichino”.
Kumamon è stato pensato per pubblicizzare l’ampliamento della rete ferroviaria ad alta velocità Shinkansen fino a Kumamoto: l’azienda ferroviaria giapponese commissionò nel 2010 un logo per promuovere la prefettura – fino a quel momento nota solo per un vulcano e per la riproduzione di un castello realizzata negli anni Sessanta – e il designer incaricato creò Kumamon, il cui nome significa più o meno “uomo-orso”. Le aziende di Kumamoto possono usare la sua immagine sui loro prodotti gratuitamente, basta che questi siano fatti con materie prime locali oppure che sulle loro etichette si parli di Kumamoto. Non tutti gli yuru-kyara hanno successo, molti vengono sostituiti se le persone non gli si affezionano, ma Kumamon ha funzionato molto bene: fu votato come yuru-kyara più popolare nel 2011 durante la competizione annuale degli yuru-kyara, il Gran Prix, alla cui ultima edizione hanno partecipato 1.727 mascotte diverse e 77mila spettatori.
おはくま〜!今日もくーまー(フィンランド語で「暑い」)になりそうだモン。水分補給はくまめにだモン☆ pic.twitter.com/mED5YC5UjP
— くまモン【公式】 (@55_kumamon) July 30, 2016
Oggi Kumamon è più di un simbolo e di una strategia commerciale per Kumamoto: Steinberg spiega che è considerato “quasi come una creatura vivente, una specie di stravagante divinità domestica a forma di orso”. Quando il 16 aprile 2016 un terremoto di magnitudo 6,2 colpì l’isola di Kyushu, dove si trova la prefettura di Kumamoto, moltissime persone scrissero a Kumamon su Twitter (il suo account ha 500mila followers) per sapere se stesse bene: molte di loro non erano nemmeno giapponesi, ma thailandesi, cinesi o di Hong Kong, e mandavano messaggi come “Kumamon e i suoi amici sono salvi?”. L’amministrazione locale era troppo impegnata con l’emergenza per aggiornare l’account Twitter dell’orso e per questo i suoi fan si erano preoccupati; migliaia di disegni fatti da bambini ma anche da artisti furono messi sui social network: mostravano Kumamon intento ad aiutare i soccorritori tra le macerie.
Dato che la linea ad alta velocità che passa per Kumamoto fu attivata il 12 marzo, questa data viene usata come compleanno di Kumamon e in occasione della ricorrenza i suoi fan (soprattutto donne) arrivano nella prefettura, anche dall’estero, per poterlo abbracciare. Steinberg ha partecipato all’ultima festa di compleanno e tra le persone presenti c’era come un “tacito accordo a non alludere mai a qualcosa di così volgare come il fatto che si trattava di un uomo in un costume da orso, a fare finta che Kumamon fosse reale”.
La scienza della cose kawaii
Il primo studioso che ha provato a interpretare il fascino per le cose carine fu l’etologo e psicologo austriaco Konrad Lonrenz, premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973 e noto soprattutto per i suoi studi sul comportamento di cani e uccelli. Nel 1943 Lorenz pubblicò un articolo in cui diceva che il modello per le cose carine è l’aspetto dei bambini piccoli, il cosiddetto Kindchenschema: guance cicciottelle, occhi grandi, fronte ampia, lineamenti tondeggianti, naso piccolo, braccia e gambe che si muovono in modo goffo. Secondo Lorenz questi elementi, per la loro associazione ai bambini piccoli e quindi indifesi, portano naturalmente gli esseri umani a provare affetto per le creature che li mostrano oltre all’impulso di prendersene cura.
I segnali infantili o Kindchenschema secondo Konrad Lorenz (Wikimedia Commons)
Più recentemente sono stati fatti studi sperimentali su come le cose kawaii vengono percepite. Secondo una ricerca giapponese del 2012, vedere facce simili a quelle dei bambini aumenta la concentrazione, come sarebbe necessario nel caso in cui una persona si trovasse a occuparsi di un bambino. Alcuni esperimenti svolti mostrando a delle persone delle immagini di cose pucciose hanno dimostrato che queste immagini stimolano la parte del cervello legata alle sensazioni di piacere, il nucleus accumbens, che è quello che rilascia la dopamina quando si fa sesso o si mangia cioccolata, ad esempio. Secondo altri due studi, fatti all’Università di Yale, quando le persone dicono che vorrebbero “mangiarsi” un bambino per quanto è carino, lo fanno perché provano forti emozioni alla vista dei piccoli: per uno dei ricercatori che hanno lavorato a questi studi, usare il verbo “mangiare” – cosa che viene fatta in diverse lingue – è un segno di una inconscia aggressività nei confronti dei bambini che sarebbe dovuta all’idea frustrante di non essere in grado di prendersene cura adeguatamente. In pratica, non sentendosi all’altezza della cura, l’adulto proverebbe contemporaneamente rabbia e preoccupazione nei confronti del piccolo.
In una tesi di filosofia del design dell’Università del Michigan del 2012, a un gruppo di persone americane e sudcoreane è stato chiesto di disegnare un rettangolo (dunque un oggetto inanimato) carino: in generale tutti facevano rettangoli piccoli, tondeggianti e colorati con colori chiari, cosa che supporta la teoria di Lorenz. Esistono comunque delle differenze culturali sulle cose carine: anche se la percezione di cosa lo è e cosa no è uguale, i giudizi di valore cambiano. Altri test effettuati nello stesso studio hanno mostrato che i sudcoreani avevano un’opinione più alta delle cose carine e questo è stato spiegato con il diverso atteggiamento della cultura dei paesi dell’est asiatico nei confronti di ciò che è giovane: Corea, Cina e Giappone hanno culture meno individualiste, che quindi danno valore a ogni membro della società, compresi i bambini e i deboli; al contrario, negli Stati Uniti la debolezza e l’infantilismo sono giudicati negativamente.
Steinberg spiega che lo studioso che più di tutti si sta impegnando nello sviluppo della scienza della pucciosità è Joshua Paul Dale, che lavora all’Università di Tokyo Gakuge. Dale ha messo insieme una bibliografia degli studi su questo argomento, che toccano diversi campi, dalla biologia alla psicologia, passando per l’antropologia. Secondo lo psicologo Hiroshi Nittono, uno degli autori dello studio sulla relazione tra le cose kawaii e la concentrazione, ci sono due aspetti nel fascino che le persone provano per le cose pucciose: da un lato l’incoraggiamento a prendersi cura dei neonati, dall’altro, dal punto di vista dei bambini, il desiderio di costruire un legame con ciò che è rassicurante. In pratica i bambini cercherebbero cose con un aspetto simile al loro, come gli orsetti di peluche con cui andare a dormire quando si resta soli.
Il concetto di puccioso
Nel suo reportage Neil Steinberg spiega che in inglese la parola che significa “carino” e può essere usata come traduzione di kawaii, cioè cute, non esisteva fino al Settecento, e che comunque non ha acquistato il senso odierno fino agli anni Trenta del Novecento. Il concetto stesso dietro a questa parola è abbastanza nuovo: prima del Novecento gli elementi del Kindchenschema di Lorenz non erano presenti nella rappresentazione dei bambini. Le immagini pucciose sono arrivate quando ci si è resi conto che potevano essere usate per vendere dei prodotti e si sono evolute nel tempo. Lo stesso Topolino è cambiato molto dalla sua prima apparizione cinematografica nel 1928: all’inizio era un topo dispettoso e a volte violento – tanto che secondo alcuni poteva spaventare le donne – mentre oggi è molto più tondeggiante e carino, anche per le il suo carattere. In italiano sembra davvero non esserci un’alternativa all’uso di “puccioso”, che fa già parte dei termini segnalati all’Accademia della Crusca per essere presi in considerazione come neologismi e può essere votato per aumentarne le possibilità che accada.
Le cose pucciose e le donne
Secondo le ricerche fatte finora sul fascino delle cose pucciose, le donne sono soggette a questa sensazione più degli uomini. Considerando che la cura dei bambini molto piccoli è affidata alle madri per ragioni biologiche questo fenomeno è comprensibile. Tuttavia alcuni studiosi si sono chiesti se la cultura delle cose pucciose, sviluppata soprattutto in Giappone, sia un elemento di una società sessista che vuole che le donne si comportino e siano trattate come bambine, o se invece possa essere un ambito in cui le ragazze imparano a conoscere la loro sessualità.
Steinberg ha scoperto che comunque non a tutte le donne giapponesi piacciono gli oggetti kawaii; è però una minoranza, spesso sensibile alle idee del femminismo. Secondo Hiroto Murasawa dell’Università femminile Shoin di Osaka, la mentalità dietro la moda delle cose pucciose “favorisce la tendenza a non affermarsi” come persone adulte e indipendenti. Nel paese (dove possedere immagini pornografiche infantili è diventato un reato solo nel 2014) l’estetica delle ragazzine e di tutto ciò che fa sembrare tali le donne adulte è dominante. Steinberg spiega che questo fenomeno è legato anche al fatto che in Giappone le donne single con più di 30 anni sono considerate come persone che hanno passato “la loro data di scadenza”. Il 38 per cento dei giapponesi non è soddisfatto del proprio aspetto e per le donne questo significa a volte indossare quelle mascherine da ospedale: non vengono usate solo per l’inquinamento, ma anche perché non si ha avuto tempo per truccarsi o non ci si sente belle abbastanza.