Gli enormi problemi dell’Angola
Dopo un periodo di forte crescita, con il calo del prezzo del petrolio il paese africano è entrato in una grave crisi economica e sanitaria, aggravata dalla molta corruzione
di Kevin Sieff – The Washington Post
Quando in questi dieci anni il prezzo del petrolio si è alzato, la capitale dell’Angola ha fatto lo stesso. Sulle macerie di una guerra civile lunga 27 anni sono stati costruiti grattacieli di vetro e pop star americane come Mariah Carey sono arrivate per fare concerti privati. Luanda, la capitale dell’Angola, sarebbe diventata «una nuova Dubai», aveva annunciato l’amministrazione della città. Il successivo crollo del prezzo del petrolio, però, ha avuto un impatto devastante su uno dei paesi più ricchi e iniqui dell’Africa. Le stesse autorità che si vantavano della scintillante ascesa di Luanda ora chiedono prestiti per miliardi di dollari. Migliaia di persone muoiono di malattie prevenibili e gli ospedali del paese hanno esaurito i farmaci; rispetto a un anno fa, un sacchetto di riso può arrivare a costare cinque volte tanto. In un continente dove le risorse naturali hanno alimentato l’alternanza di periodi di grandi espansione e crolli, l’Angola si distingue in un modo notevole e inquietante. Il paese dipende dalle esportazioni di materie prime più di qualsiasi altra nazione dell’Africa sub-sahariana, e oggi paga il prezzo di questa dipendenza in modo drammatico.
Una ragazza in un quartiere povero della città di Cabinda (Nichole Sobecki/For The Washington Post)
L’Angola non è l’unico paese in difficoltà da quando il prezzo del petrolio è sceso da oltre 100 dollari al barile nel 2014 a meno di 30 l’anno scorso, per poi raggiungere di recente i 40 dollari circa. Anche il Venezuela ha problemi di carenza di cibo, la Nigeria ha subìto la peggiore crisi economica da decenni a questa parte. La caduta dell’Angola, però, è rimasta quasi totalmente nascosta al mondo, dal momento che raramente il paese concede dei visti ai giornalisti.
Il centro di Luanda (Nichole Sobecki/For The Washington Post)
Un quartiere povero della città di Cabinda (Nichole Sobecki/For The Washington Post)
All’incirca il 45 per cento del prodotto interno lordo dell’Angola proviene dal settore del petrolio e del gas – contro il 25 per cento del Venezuela e il 35 della Nigeria – stando all’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC). All’ospedale Cajueiros di Luanda, la crisi petrolifera si è trasformata in un’emergenza sanitaria. L’ospedale, come succede nella maggior parte dei casi in Angola, ha finito gli aghi, i guanti chirurgici e quasi tutti i farmaci. L’unico modo che hanno i pazienti per ottenere delle cure è comprare o far comprare ai loro parenti questi prodotti sul mercato nero. La maggior parte degli angolani, però, non se li può permettere. Nelle ultime settimane, i test per l’HIV e i vaccini per la tubercolosi non erano disponibili da nessuna parte, stando a quanto riportato dagli operatori sanitari angolani e internazionali. Dopo che l’anno scorso il governo ha tagliato le spese del 53 per cento, l’Angola non ha comprato nemmeno una dose di farmaci per la malaria. Nel primo trimestre del 2016, nel paese c’erano circa 1,3 milioni di persone che avevano contratto la malattia, e almeno 3.000 sono morte, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. «Oggi quando vai in qualsiasi ministero a chiedere qualcosa, la risposta è sempre la stessa: “Non abbiamo i soldi”», ha detto Francisco Songne, il più importante funzionario dell’UNICEF in Angola. Da sola, la crisi economica non basta a spiegare la preoccupante situazione della sanità pubblica in Angola. Il governo del paese ha da tempo grossi problemi di corruzione diffusa e cattiva gestione. L’Angola ha il terzo tasso di mortalità infantile al mondo, con un bambino su 6 che muore prima dei cinque anni, riportano alcuni funzionari dell’UNICEF.
Grazie al grande aumento del prezzo e della produzione del petrolio, l’economia dell’Angola era cresciuta con l’incredibile media del 17 per cento annuo dal 2004 al 2008. Nel 2014, il paese aveva il terzo PIL dell’Africa sub-sahariana, dopo Nigeria e Sudafrica. La ricchezza, però, è andata concentrandosi sempre di più nelle mani di pochi, soprattutto persone vicino alle élite politiche. Anche dopo l’inizio della recessione economica, queste élite hanno continuato a spendere esageratamente. A dicembre, una delle maggiori società di telefonia mobile dell’Angola – Unitel – avrebbe pagato due milioni di dollari alla rapper americana Nicki Minaj per farla esibire a Luanda. All’epoca, il CEO di Unitel era Isabel dos Santos, figlia del presidente angolano José Eduardo dos Santos, in carica dal 1979. A giugno, Isabel dos Santos – la prima donna miliardaria in Africa – è stata nominata a capo della società petrolifera dello stato.
Di recente, Christina Da Silva stava aspettando fuori dall’ospedale Cajueiros per portare guanti chirurgici, aghi e farmaci a suo marito, che aveva contratto la malaria. Lei e i suoi famigliari erano riusciti a mettere insieme i soldi necessari per comprare delle pastiglie che costavano meno di dieci euro, che è comunque un prezzo quasi inaccessibile in un paese dove metà dei lavoratori guadagna meno di due dollari al giorno. Prima della crisi, negli ospedali pubblici i farmaci erano gratuiti. «Prendo soldi in prestito dalla mia famiglia. Dai miei amici. Mi procuro i soldi in qualsiasi modo», ha raccontato Da Silva. «Se non ci riesco, mio marito muore».
La piscina dell’hotel di lusso Epic Sana, a Luanda (Nichole Sobecki/For The Washington Post)
Una donna e delle bambine in un quartiere povero della città di Cabinda (Nichole Sobecki/For The Washington Post)
I pochi attivisti disposti a parlare e giornalisti indipendenti dell’Angola protestano da tempo contro le marcate ineguaglianze del paese, ricco di petrolio. Come è possibile – si chiedono queste persone – che a Luanda ci sia un trafficato concessionario della Porsche e appartamenti con affitti da quasi 18mila euro al mese e così tanti poveri? Oggi, questi stessi attivisti devono fare i conti con una domanda inquietante: e se le cose peggiorassero? «Nemmeno nel periodo della guerra morivano così tante persone», ha detto Rafael Marques de Morais, il fondatore di di Maka Angola, un’organizzazione che vigila sull’operato del governo – verso cui de Morais è critico – in riferimento al conflitto finito nel 2002.
Il crollo del prezzo del petrolio ha portato a un rapido calo dei flussi di dollari americani verso l’Angola e alla diminuzione del valore della moneta locale, il kwanza. In un paese in cui molti beni essenziali sono importati, questo significa un aumento vertiginoso dei prezzi. Ma il problema non sono solo i beni importati: all’Angola mancano i professionisti. Il paese importa da anni ingegneri, medici e insegnanti stranieri, e ora fatica a pagarli. L’anno scorso, centinaia di medici cubani hanno minacciato di lasciare il paese perché non venivano pagati da mesi. La questione è stata poi in gran parte risolta, ha raccontato l’ambasciatore cubano in Angola al giornale di Luanda Opais.
Una festa al Miami Beach club di Luanda, di proprietà di Isabel Santos, figlia del presidente angolano José Eduardo dos Santos, (Nichole Sobecki/For The Washington Post)
Per anni l’Angola è stato uno dei paesi più costosi al mondo per gli espatriati, nel periodo in cui il petrolio faceva aumentare il valore della moneta. Lo stile di vita di queste persone ha generato una serie di aneddoti pittoreschi, come la storia di un francese che pagò 100 dollari per comprare un melone in un negozio, per poi denunciare inutilmente la persona che gliel’aveva venduto. Ma per la gente del posto, i cui stipendi sono pagati in kwanza, non è mai stato così difficile poter comprare cibo o medicine, per via della svalutazione della moneta e dei tagli ai programmi di welfare, e a volte le condizioni di vita sono peggiorate al punto da portare alla morte. Un esempio impressionante è un’epidemia di febbre gialla, la più grande al mondo da decenni a questa parte. La responsabilità dell’epidemia è stata in parte attribuita al rifiuto del governo di finanziare la raccolta dei rifiuti in alcune zone di Luanda, a causa del bilancio ristretto. I rifiuti, insieme alle pozze di acqua piovana, hanno attirato stormi di zanzare, portatrici della malattia mortale. A oggi, ci sono stati 3.000 casi sospetti e circa 350 morti. «Si sarebbe potuto assolutamente evitare», ha detto Songne dell’UNICEF.
La grande crescita economica, durata 15 anni, ha reso più difficile ricevere aiuti internazionali per l’Angola, che oggi è classificato dalla Banca Mondiale come paese “a reddito medio-alto”. «Le agenzie umanitarie hanno tagliato i finanziamenti allo sviluppo per via dell’idea secondo cui l’Angola è un paese a reddito medio, in grado di garantire i servizi pubblici», ha detto Alex Vines, direttore per l’Africa di Chatham House, un centro studi britannico. «Ma il paese non si occupa dei suoi poveri in questo modo». Prima della crisi economica, il governo dell’Angola aveva presentato dei piani per diversificare l’economia, come la creazione di un fondo sovrano, o un fondo di investimento di proprietà dello stato. Il fondo, che ricevette una sovvenzione di 5 miliardi di dollari ed era gestito da José Filomeno dos Santos, figlio del presidente angolano, iniziò a investire in hotel, infrastrutture, assistenza sanitaria e sull’estrazione mineraria in tutta l’Africa. In un’intervista, Dos Santos ha sottolineato l’importanza del fondo nel contribuire a «spostare l’attenzione dal settore estrattivo e investire in altri campi che potrebbero rendere molto più sostenibile l’economia interna». A giugno, l’Angola ha richiesto un prestito al Fondo Monetario Internazionale, che in linea di principio aveva acconsentito a prestare 4,5 miliardi di dollari al paese. A fine giugno, però, il governo angolano ha ritirato improvvisamente la richiesta e il prestito non è mai arrivato. «Era un po’ di tempo che non si vedeva un calo del prezzo del petrolio così sostenuto», ha detto Cobus de Hart, economista della società di ricerca sudafricana NKC African Economics. «È questo che rende la situazione così complicata questa volta. L’Angola è un paese che non è riuscito a diversificare la sua economia e ora è in difficoltà».
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