Perché non ricordiamo la nostra infanzia
C'è una ragione fisica – nei bambini piccoli l'ippocampo non è del tutto sviluppato – ma potrebbero essercene anche di culturali
Da sempre psicologi, linguisti e neuroscienziati si sono interessati a cosa le persone ricordino della loro infanzia. Alcuni ricordano eventi avvenuti quando avevano solo due anni, altre persone non hanno alcuna memoria precedente il loro settimo o ottavo compleanno: Sigmund Freud, considerato il fondatore della psicanalisi, coniò il termine “amnesia infantile” per descrivere questo fenomeno. Non si sa ancora quale sia la ragione per cui non ricordiamo i primi anni della nostra vita come altri periodi, ma negli anni psicologi e neuroscienziati hanno realizzato molti studi sull’argomento, hanno scoperto alcune cose e hanno elaborato alcune teorie sul perché alcune persone cominciano a ricordare prima di altre. Un articolo pubblicato nella sezione Future del sito BBC riepiloga le ultime scoperte e teorie su quello che sappiamo sui ricordi infantili.
Negli anni Ottanta è stato studiato come effettivamente gli eventi dell’infanzia tendano a essere dimenticati molto di più rispetto a quelli che accadono più avanti nel corso della vita delle persone: tutti ne fanno esperienza, ma è stato solo in quel periodo che si è capito che tutti hanno pochi ricordi di quando avevano meno di sette anni, anche meno rispetto a quanto si pensava. Il primo paradosso a cui gli studiosi si trovano davanti è il fatto che per quanto riguarda l’apprendimento, i bambini molto piccoli sono come delle spugne nei confronti delle nuove informazioni: nel loro cervello si formano 700 nuove connessioni neuronali ogni secondo e alcune recenti ricerche (ad esempio uno in cui si testava la memoria dei feti rispetto a una melodia ascoltata spesso durante la gravidanza) hanno mostrato che il processo di apprendimento inizia ancora prima della nascita, già nell’utero materno.
In media non ricordiamo nulla di ciò che ci è successo prima dei tre anni e mezzo di vita. È stato osservato però che l’età dei primi ricordi non cambia solo da persona a persona, ma anche da paese a paese, in media. Nel 2001 la psicologa Qi Wang della Cornell University ha fatto una ricerca intervistando 256 studenti, alcuni americani e altri cinesi: in generale gli studenti americani avevano ricordi della loro infanzia più lunghi, più dettagliati e molto più focalizzati su loro stessi, mentre quelli degli studenti cinesi erano più brevi e si limitavano ad alcuni fatti precisi. Inoltre, in media i ricordi degli studenti cinesi cominciavano sei mesi dopo quelli degli studenti americani: questo dimostrerebbe che la cultura in cui nasciamo influenzi il modo in cui da bambini iniziamo a ricordare la nostra vita. Nelle società in cui l’esperienza personale o il rapporto con la memoria famigliare sono più importanti, i ricordi tendono a formarsi prima; il coinvolgimento emotivo personale ha un ruolo importante nella formazione dei ricordi: ad esempio, ha spiegato la psicologa Robyn Fivush della Emory University alla BBC, è più facile ricordare qualcosa come “Ho visto le tigri allo zoo e mi sono divertito anche se facevano paura” che un semplice “Allo zoo c’erano le tigri”. Il record per l’età più bassa dei primi ricordi è quello dei Maori della Nuova Zelanda, che in media ricordano fatti avvenuti quando avevano due anni e mezzo: pare che sia perché nella loro cultura il passato ha una grande importanza e questo concetto è trasmesso fin da subito ai bambini.
Gli scienziati hanno cercato di scoprire anche se ci sia un legame tra la formazione dei primi ricordi e lo sviluppo del linguaggio, cioè tra il momento in cui impariamo a parlare e quello con cui coincidono i primi ricordi. Molti psicologi sono in disaccordo con questa teoria perché i bambini nati sordi e cresciuti senza conoscere il linguaggio dei segni hanno dei primi ricordi simili a quelli degli altri bambini. Nonostante ciò è vero che il linguaggio aiuta a dare una forma ai ricordi, trasformandoli in storie grazie a una struttura narrativa.
Esiste poi una teoria che ha più a che vedere con lo sviluppo fisico dei bambini. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, grazie al caso clinico noto del paziente noto come H.M. si è scoperto che la capacità di archiviare ricordi sta nell’ippocampo, una parte del cervello situata nel lobo temporale (più o meno al centro del cervello): H.M., il cui vero nome era Henry Gustav Molaison, era un uomo che in seguito a un intervento chirurgico realizzato per curare la sua epilessia, perse la capacità di memorizzare nuove cose, se non a breve termine. Nell’intervento gli furono asportati tre quarti dell’ippocampo e questo permise di capirne una delle funzioni, quella di registrare nuovi ricordi nella memoria. Molaison però non aveva perso la capacità di memorizzare nuove abilità, come succede ai bambini piccoli: una volta che si impara a stare in piedi, a parlare, a mangiare senza sporcarsi o ad andare in bicicletta non si dimentica come si fa, anche se non ci ricordiamo come e quando abbiamo imparato, perché l’apprendimento di abilità e il ricordo di eventi avvengono in diverse zone del cervello. L’ippocampo continua a crescere nei primi anni di vita e sembra che i primi ricordi a lungo termine non si formino fino a quando il suo sviluppo non è completo, il che appunto spiegherebbe il perché dell’amnesia infantile.
Secondo alcuni psicologi tuttavia è improprio dire che i ricordi dei primi anni della nostra vita non esistono: secondo loro sono soltanto nascosti nel cervello (non nell’ippocampo) e non riusciamo a ricordarli. Per dirla altrimenti: le informazioni sono archiviate da qualche parte, ma il nostro cervello non è in grado di usarle. Questa teoria è stata derivata dal fatto che anche eventi che capitano nei primi anni di vita delle persone sembrano influenzarne il comportamento anche senza che quelle persone ne abbiano memoria. Il limite di questa teoria, tuttavia, è che è molto difficile da dimostrare.
Un altro aspetto affrontato da chi studia i ricordi infantili è quanto questi siano inventati o modificati col tempo sotto l’influenza di stimoli esterni, come racconti fatti da altre persone, video o fotografie. È molto facile suggestionarsi e cominciare a credere di ricordarsi una cosa solo perché qualcuno ha detto che vi avevamo assistito. La psicologa dell’Università della California Elizabeth Loftus ha cominciato a studiare questo tipo di formazione dei ricordi per via della sua esperienza personale: un giorno un parente le disse che era stata lei, a 16 anni, a trovare il corpo di sua madre annegata. Loftus non aveva questo ricordo, ma convinta dal racconto di questa persona finì per ricordare il momento del ritrovamento del cadavere. Solo che in realtà questo non era mai successo: poco tempo dopo la persona sua parente le disse di essersi sbagliata.
Negli anni Ottanta Loftus provò a creare dei finti ricordi nelle menti di chi accettava di partecipare ai suoi test, facendosi aiutare dai parenti delle persone su cui si basava lo studio: un terzo dei partecipanti allo studio dichiarò di ricordare come accaduto realmente e in modo vivido il fatto inventato. Un altro studio a cui Loftus ha collaborato sembra addirittura suggerire che le persone tendano a fidarsi di più dei ricordi indotti da testimonianze altrui rispetto a quelli che ricordano autenticamente.