In Francia è passata la riforma del lavoro
Dopo mesi di proteste è stata adottata dal Parlamento, che però non ha potuto votarla
L’Assemblea nazionale, la camera bassa del Parlamento francese, ha approvato in via definitiva la legge sulla riforma del lavoro, di cui in Francia si discuteva da mesi: l’approvazione non è arrivata con un voto, perché il governo ha fatto ricorso a un criticato procedimento parlamentare che permette di approvare una legge senza voto e discussione.
Il meccanismo utilizzato dal primo ministro Manuel Valls è contemplato nella Costituzione francese all’articolo 49.3: consente al governo di imporre l’adozione di una legge da parte dell’Assemblea immediatamente, senza la necessità di discuterla o votarla. L’Assemblea ha comunque la possibilità di opporsi a questa decisione attivando un voto per censurare (sfiduciare, diremmo noi) il governo. Nel caso della riforma del lavoro il governo Valls vi ha fatto ricorso per tre volte. Entro le 16.30 di oggi i parlamentari contrari alla riforma avrebbero dovuto presentare una mozione di censura, che poi avrebbe dovuto ottenere la maggioranza in Parlamento tramite un voto: non è successo, e il presidente del Parlamento Claude Bartolone ha quindi annunciato l’approvazione della legge.
In questo modo il governo si è assicurato il passaggio della legge, evitando le incognite di un voto parlamentare combattuto e con dissensi all’interno dello stesso Partito Socialista. Valls mercoledì aveva detto in Parlamento che la nuova legge è “necessaria per il futuro del paese”. Nei mesi scorsi partiti di opposizione e sindacati avevano organizzato grandi manifestazioni contro la riforma, contestandone buona parte dei contenuti e chiedendo una sua revisione. Per settimane molti settori del paese, come quello dei trasporti, sono rimasti bloccati con scioperi a livello nazionale.
Il testo della riforma approvato oggi è diverso da quello che aveva presentato la ministra del Lavoro Myriam El Khomri lo scorso febbraio e che era stato molto criticato da studenti e sindacati. Il governo aveva rivisto la prima versione e la commissione Affari Sociali dell’Assemblea Nazionale aveva a sua volta modificato alcune disposizioni del disegno di legge.
La riforma rende innanzitutto più semplici per le aziende i licenziamenti economici, riducendo al minimo la discrezionalità dei giudici: sostanzialmente amplia le cause di licenziamento senza reintegro del lavoratore o della lavoratrice, indicando tra le ragioni economiche anche una riorganizzazione necessaria al salvataggio dell’azienda o una diminuzione degli ordinativi o del giro d’affari per vari trimestri consecutivi. Nella seconda versione del testo è stata inserita una frase che esclude dalla “giusta causa” «le difficoltà economiche create artificiosamente dalle aziende per procedere con i licenziamenti».
Un altro punto molto contestato della nuova legge riguarda la retribuzione delle ore di straordinario, che verrebbe abbassata al 10 per cento (attualmente è di circa il 25 per cento in più nelle prime otto ore di straordinario). Di fatto, dicono i sindacati, se gli straordinari saranno più convenienti per i datori di lavoro, ce ne saranno molti di più: quindi l’orario di lavoro settimanale aumenterà con ridotti benefici per i lavoratori. Si prevede poi una maggiore flessibilità sempre per le imprese ad aumentare gli orari di lavoro, una minore frequenza delle contrattazioni con i sindacati, parametri più elevati (e quindi più difficili da raggiungere, per i sindacati) per rendere valido un referendum interno o un accordo.
La riforma, per chi la contesta, presenta infine un “rovesciamento della gerarchia delle norme”. Di norma il codice del lavoro è disciplinato dalla legge: i contratti collettivi non possono essere meno favorevoli per i dipendenti di quanto non stabilisca la legge; i contratti aziendali allo stesso modo non possono avere parametri più bassi (o tutelare meno il dipendente) di quanto non prevedano i contratti collettivi; infine il singolo contratto di lavoro non può essere meno favorevole al dipendente di quanto previsto nell’accordo d’azienda. Il nuovo disegno di legge dice che per quanto riguarda la durata del lavoro (che comprende orario, straordinari, ferie, congedi ecc) il primato va al contratto aziendale. In altre parole, dal punto di vista del dipendente, il contratto aziendale può essere “meno conveniente” dell’accordo collettivo fatto dai sindacati per quello specifico settore, di fatto annullandolo.