La musica non è universale
Non ha qualità intrinseche, dice un nuovo studio, e gran parte delle cose che ci piacciono dipendono dalla cultura che le produce
di Sarah Kaplan – The Washington Post
Questo intervallo è soprannominato “il diavolo in musica” per via del suono: sgradevole, inquietante, addirittura spaventoso. È formato da due note separate da tre toni, che creano la dissonanza nota come tritono, che i compositori usano da secoli con grande efficacia. Lo si può ascoltare nella scena pagana del Crepucolo degli dei di Wagner, nell’intro di Purple Haze di Jimi Hendrixi, nella sigla della serie tv Ai confini della Realtà, e nei film di solito sottolinea l’arrivo del cattivo. Appena lo si sente, capiamo subito che dovremmo sentirci insicuri e in apprensione. La dissonanza è così angosciante e profondamente inquietante che per molto tempo i musicisti hanno creduto che la nostra avversione nei suoi confronti fosse innata. Ma a chi è cresciuto tra gli Tsimane, una società isolata che vive nella foresta amazzonica boliviana, il tritono potrebbe non creare problemi. Gli Tsimane, che non sono influenzati dai gusti musicali occidentali, non preferiscono gli accordi consonanti rispetto a quelli dissonanti, come sostiene uno studio condotto da alcuni ricercatori e pubblicato mercoledì 13 luglio sulla rivista scientifica Nature. «Le persone tendono a dare per scontato che le caratteristiche della musica occidentale abbiano una qualche importanza fondamentale, e che abbiano della basi biologiche», ha detto Josh McDermott, un neuroscienziato uditivo del Massachusetts Institute of Technology e autore principale dello studio. «Ma i risultati dello studio lasciano pensare che non sia così».
Non esistono definizioni assolute di consonanza e dissonanza. Questi termini hanno un significato per lo più quando sono messi in relazione l’uno con l’altro e nel contesto culturale. Gli accordi consonanti sono considerati generalmente felici, trionfanti o dolci – pensate alla quinta maggiore nella colonna sonora di Star Wars e alla triade maggiore di Ob-la-di, ob-la-da dei Beatles – mentre per gli accordi dissonanti vale in contrario. Spesso, ci riferiamo agli accordi consonanti in termini di “stabilità”. Il nostro cervello vuole che i suoni dissonanti, che danno una sensazione di tensione e instabilità, si trasformino in consonanti: in Maria di West Side Story, le prime due note dissonanti (il do e il fa diesis in “Ma-ri”, che forma un tritono) si trasformano in una nota consonante (un sol, che con il do forma un quinta perfetta).
Si può sentire la differenza tra le due tipologie di suono nelle due note qui sotto:
Dal punto di visto matematico, questa dicotomia ha senso. Negli accordi consonanti, le note vibrano a delle frequenze che sono ben proporzionate tra loro – una quinta giusta ha un rapporto di frequenza di 3:2, una terza maggiore di 5:4, e un’ottava di 2:1 – mentre le frequenze degli accordi dissonanti creano strane proporzioni. Il matematico greco Pitagora lo aveva capito nel sesto secolo a.c. (non c’è niente che faccia pensare alla “cultura occidentale” come parlare degli antichi greci), e da allora i compositori europei ci si sono praticamente sempre attenuti a queste indicazioni. «Questa è una delle ragioni principali che ha portato le persone a convincersi del fatto che ci sia una specie di base biologica e fisica» alla nostra preferenza per la consonanza, ha detto McDermott, «È per via di queste relazioni matematiche».
Per il loro studio – che li ha portati dalle città degli Stati Uniti fino a villaggi boliviani raggiungibili solo dopo un viaggio in canoa di diversi giorni – McDermott e i suoi colleghi hanno sottoposto oltre 250 persone a un test per verificare la secolare teoria sulla consonanza, scoprendo che la preferenza per i suoni consonanti è correlata in modo diretto alla musica occidentale. Ci sono alte probabilità che degli studenti di musica americani valutino i suoni consonanti come “piacevoli” e quelli dissonanti come “sgradevoli”, mentre è leggermente meno probabile che americani che non hanno ricevuto una formazione musicale facciano lo stesso. Anche in Bolivia, gli abitanti di città e paesi hanno mostrato di avere una preferenza per la consonanza, anche se meno accentuata rispetto agli americani. Ma quando McDermott e il suo collega Ricardo Godoy – un antropologo che lavora con gli Tsimane da vent’anni – hanno visitato l’isolata comunità dell’Amazzonia, hanno scoperto una cosa decisamente diversa. «Abbiamo condotto un esperimento molto semplice: avevamo soltanto dei computer portatili, delle cuffie e un generatore. Abbiamo fatto partire dei suoni, chiedendo agli Tsimane di dirci se li trovavano piacevoli o meno», ha raccontato McDermott. «Gli Tsimane hanno valutato i suoni consonanti e dissonanti allo stesso modo: non avevano preferenze». Il motivo non è che gli Tsimane non riconoscono la differenza tra i suoni: alle domande dei ricercatori, sono stati in grado di identificare i diversi accordi. I test di controllo in cui sono stati usati dei suoni considerati generalmente come sgradevoli – un sussulto di paura e il suono “ruvido” di due toni in frequenza ravvicinata – hanno dimostrato inoltre che i partecipanti allo studio condividevano altre presunte preferenze “universali”. «Invece che essere la conseguenza inevitabile della biologia del sistema uditivo», hanno concluso i ricercatori, «sembra che la preferenza degli ascoltatori occidentali per le frequenze armoniche derivi dall’esposizione alla musica occidentale».
Uno Tsimane durante l’esperimento (Josh McDermott)
Tutte le culture conosciute producono musica. Il desiderio di mettere note in serie per produrre una specie di melodia sembra essere innato negli esseri umani. Questo studio, però, suggerisce che le melodie che preferiamo non siano poi così tanto universali. Gli Tsimane, per esempio, non hanno una tradizione di armonia musicale: nella loro storia musicale non c’è l’abitudine di suonare più note contemporaneamente, e quando viene chiesto loro di suonare o cantare insieme, rifiutano. In un’analisi che accompagna lo studio su Nature, il neuroscienziato Robert Zatorre suggerisce che possa essere questa la spiegazione per la mancanza di preferenze degli Tsimane.
«Penso che i risultati del nostro studio evidenzino davvero il grado di variazione che esiste tra le diverse culture, sul piano di come le persone sentono e valutano la musica», ha detto McDermott. Questa variazione viene “mascherata” dall’onnipresenza della musica occidentale, ha aggiunto McDermott: oggi praticamente chiunque abbia accesso alla radio e a internet è immerso in un tipo di musica che associa la consonanza al trionfo e la dissonanza alla paura. Nel frattempo, culture come quelle degli Tsimane rischiano sempre di più di scomparire, e tra dieci anni McDermott potrebbe non essere più in grado di ripetere il suo studio, che «sottolinea l’importanza della cultura nel modo in cui le persone sentono la musica, ma anche l’importanza di esplorare culture diverse da quella occidentale», ha detto McDermott. «Ed è una cosa sempre più difficile da fare».
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