Parliamo delle libertà personali
Luigi Manconi fa delle obiezioni ai magistrati torinesi che hanno risposto a Paolo Virzì sulle misure contro due manifestanti "No Tav"
di Luigi Manconi
Due recenti provvedimenti della magistratura torinese suggeriscono qualche riflessione sul rapporto tra diritto penale e libertà di espressione. Il primo provvedimento, della Procura di Torino, riguarda gli arresti domiciliari disposti – a seguito degli scontri al cantiere Tav di Chiomonte del 28 giugno 2015 – nei confronti di una giovane attivista cui erano già state applicate, per un altro procedimento, le misure cautelari dell’obbligo di firma. E successivamente il divieto di dimora in quello stesso comune (Torino) ove ora invece le si imporrebbe l’arresto. Alla studentessa Maria Edgarda Marcucci, oggi irreperibile – cui il regista Paolo Virzì ha rivolto un appello affinché ritorni a casa – sono attribuiti reati contro l’ordine pubblico o la pubblica amministrazione connotati da elementi, quali la violenza o la minaccia, che stando ai filmati disponibili, sembrano del tutto estranei al comportamento della stessa. Ma pur non volendo contestare la ricostruzione dei fatti offerta dalla Procura – e difesa dai suoi vertici (Spataro, Saluzzo, Perduca) su La Stampa del 14 luglio – ciò che emerge con chiarezza è la contraddittorietà tra due misure – emesse dalla stessa Procura, nei confronti della medesima imputata, a breve tempo di distanza l’una dall’altra – quali il divieto di dimora e gli arresti domiciliari nello stesso territorio interdetto. Se pure non si vuole attribuire alla Procura alcuna “strategia” volta alla repressione indiscriminata del dissenso, non si può non ritenere singolare la scelta dei provvedimenti cautelari.
Negli stessi giorni del dibattito Virzì-Procura è stata depositata dal Tribunale di Torino la motivazione della sentenza di condanna di un’altra giovane studentessa, Roberta Chiroli, a due mesi di reclusione, per «concorso morale» nella commissione di due reati materialmente realizzati da attivisti no Tav a giugno 2013: invasione della sede di una società produttrice di calcestruzzo e blocco temporaneo del transito di una betoniera. Il ruolo di concorrente attribuito alla ragazza sarebbe stato desunto, oltre che dalla sua presenza tra i manifestanti, anche dal ricorso, nella sua tesi di laurea in antropologia, alla prima persona plurale nella descrizione degli eventi, quasi rivendicandone – secondo il Tribunale – l’ascrivibilità a se stessa. Ora, desumere dallo stile retorico e da un espediente letterario (il noi) di una tesi di laurea la responsabilità per un’ipotesi di reato così sfuggente come il concorso morale, sembra quantomeno azzardato.
Non si tratta dunque – come stigmatizzano i Procuratori – di aderire acriticamente alla ricostruzione dei fatti sostenuta dalla difesa, ma di limitarsi a rilevare come sindacare in sede giudiziaria il contenuto di una tesi possa portare a conseguenze che, in ultima istanza, si rivelerebbero aberranti. Soprattutto perché non si comprende che valenza istigativa possa avere una tesi di laurea, che oltretutto, e diversamente da un libro, non è naturalmente destinata alla divulgazione. Se infatti il concorso morale è punito solo se e nella misura in cui fornisca un contributo causale (sia pur in termini di sostegno ideologico) all’azione illecita, non si comprende come a tal fine possa essere idoneo uno scritto destinato soltanto alla discussione accademica in sede di laurea.
Non c’è forse il rischio di incriminare, così, una mera opinione priva di alcuna valenza istigativa o apologetica? E, dunque, di andare ben oltre quella soglia del “tentativo di reato”, che separa la sanzione del fatto dalla punizione dell’intenzione? Non a caso, regimi totalitari come quello nazista punivano il tentativo allo stesso modo del reato consumato, ritenendo di dover sanzionare non la lesione di un bene giuridico ma l’intenzione criminosa manifestata, indifferentemente, in parole o atti. La conquista più grande dei sistemi liberali è stata invece sostituire al diritto penale delle intenzioni il diritto penale del fatto, limitando cioè la punibilità alle sole azioni manifestate con atti esteriori, lesivi di valori essenziali per l’ordinamento. Si è affermata progressivamente l’idea che una democrazia, preoccupata di proteggersi con un sistema di pene da opinioni e idee per quanto scomode, confessi in tal modo la propria debolezza.
Ps. Come ognuno può vedere, stiamo parlando di questioni delicatissime, tanto più cruciali perché rimandano a un tema fondamentale quale è quello della libertà personale. Ci si sforza tutti, di conseguenza, di conservare un linguaggio equilibrato, ma non posso tacere un dettaglio. I procuratori che hanno replicato alla lettera di Virzì vengono qui, com’è ovvio, indicati nominativamente, ma proprio loro nel richiamare l’interlocutore lo definiscono “un noto regista cinematografico”. Sarà pure un particolare insignificante, ma resto incerto tra il considerarla una modalità di opportuna astrazione dei temi in discussione e la sottilissima e insidiosa tentazione di definire lo stesso Virzì come “un artista”, che meglio farebbe a occuparsi delle cose sue e di sua competenza.