L’Arabia Saudita vista di lato
Un giornalista del New York Times ha raccontato la tensione nel paese tra modernità e tradizione, tra permesso e proibito, partendo dalla storia di un atipico riformatore religioso
Nel dicembre del 2014 il più popolare talk show dell’Arabia Saudita, Badria, fece una puntata molto speciale: ospitò l’importante religioso Ahmad Aziz al Ghamdi, che si presentò insieme alla moglie senza il tradizionale velo usato per coprire tutto il volto. Al Ghamdi non è un religioso qualunque – fu anche il capo della polizia religiosa della Mecca – e scoprirsi la faccia in pubblico non è molto frequente per una donna in Arabia Saudita, un paese dove vige una rigida separazione tra uomini e donne. Nelle settimane precedenti al Ghamdi, considerato un ultraconservatore e membro dell’imponente burocrazia religiosa saudita, aveva già fatto parlare di sé: aveva stupito e sorpreso molti sauditi con le sue fatwa – pareri legali dati da un esperto di legge coranica – considerate troppo “liberali” (“liberali” per gli standard rigidissimi dell’Arabia Saudita). Per esempio aveva risposto su Twitter a una donna che gli chiedeva se le fosse permesso pubblicare sui social media la sua faccia: poteva, aveva detto lui, ricevendo in cambio più di 10mila commenti che andavano da messaggi di congratulazioni a minacce di morte.
Della trasmissione si parlò per giorni, perché una cosa che nella stragrande maggioranza dei paesi musulmani è normale – tenere la faccia scoperta, mostrando occhi, naso e bocca – in Arabia Saudita non è così frequente. In alcuni degli ambienti più conservatori del paese gli uomini passano la vita senza vedere la faccia di una donna, a eccezione di quella delle parenti più vicine. Le donne non possono guidare, non possono viaggiare se non accompagnate da uno stretto parente maschio, non possono pregare insieme agli uomini e non possono riunirsi in luoghi che non siano dedicati esclusivamente a loro (almeno in teoria: poi in molte città saudite gli incontri pubblici tra uomini e donne esistono).
Ma l’Arabia Saudita è anche un paese pieno di contraddizioni, dove non sempre le cose vanno come dicono i religiosi. Per esempio nel 2009 Re Abdullah – morto nel 2015 dopo dieci anni di regno – annunciò l’apertura della King Abdullah University of Science and Technology (KAUST), la prima università saudita nella quale le donne potevano riunirsi con gli uomini e avevano diverse libertà nel vestirsi (la foto a fianco, scattata nell’ottobre del 2009, mostra due donne camminare nel campus universitario: una con il velo, l’altra senza). I religiosi protestarono ma il Re li ignorò. Nel 2012, per la prima volta, due atlete saudite parteciparono alle Olimpiadi, che quell’anno si tennero a Londra: erano la judoka Wojdan Shaherkani e la 800metrista Sarah Attar. Nel dicembre 2015 si tennero le prime elezioni nelle quali le donne potevano votare e candidarsi.
Ben Hubbard, giornalista del New York Times, ha trascorso diverse settimane in Arabia Saudita per capire qualcosa di più sul wahhabismo, l’interpretazione ultraconservatrice dell’Islam sunnita adottata dai sauditi e spesso accusata all’estero di alimentare l’intolleranza e il terrorismo. Hubbard ha raccontato quello che ha visto in un articolo intitolato “A Saudi Morals Enforcer Called for a More Liberal Islam. Then the Death Threats Began”, che parla della storia di Ghamdi e di molte altre cose che si conoscono poco: come la continua tensione tra il “moderno” e il “tradizionale”, tra quello che è permesso (halal) e quello che è vietato (haram). Per esempio: come si giustifica l’uso della tecnologia quando i religiosi – che competono tra loro per i followers su Twitter, Facebook e Snapchat – hanno sempre definito le cose nuove come una minaccia? Come si concilia il fatto che il governo stia cercando di introdurre sempre più donne nel mondo del lavoro quando esiste una fatwa che considera il lavorare-insieme come «la ragione della distruzione delle società»?
Da dove arriva e cos’è il wahhabismo
Il wahhabismo viene associato spesso alla visione più ultraconservatrice e ortodossa dell’Islam, che in qualche maniera ha influenzato l’ideologia di molti gruppi terroristi islamici. Il termine “wahhabismo” indica una riforma religiosa che si sviluppò all’interno della comunità islamica sunnita a partire dal Diciottesimo secolo, dall’iniziativa di Sheikh Mohammed ibn Abdul-Wahhab (da qui il nome “wahhabismo”). Wahhab credeva che l’Islam si fosse corrotto, per esempio con la venerazione dei santi e delle tombe. Voleva tornare a quella che considerava la “religione pura” e si alleò con Mohammed ibn Saud, il fondatore del primo stato saudita. La famiglia Saud assunse la leadership politica, Wahhab e i suoi discendenti quella religiosa, usata anche per dare legittimità al governo dei Saud. I due poteri si svilupparono interagendo fin da subito: per esempio i combattenti arabi che resistevano alle conquiste militari dei Saud non erano solo nemici, ma anche infedeli che meritavano di morire. Il primo stato saudita fu distrutto dagli Ottomani nel 1818: ci furono poi diversi tentativi per crearne un altro, ma non andarono a buon fine fino all’inizio del Ventesimo secolo.
Da allora e fino a oggi l’alleanza tra i Wahhabi e i Saud ha continuato a condizionare tutta la politica e la società saudita. Hubbard ha scritto:
«La famiglia reale è cresciuta, da un gruppo di divisi abitanti del deserto è diventata un estesissimo clan con palazzi e jet privati. I Wahhabi si sono trasformati da un movimento di riforma puritano in un’enorme burocrazia statale. Questa burocrazia consiste in una rete di università che sforna laureati formati nelle discipline religiose, in un sistema legale che applica la sharia (la legge islamica), in un consiglio di religiosi che consiglia il re, in una rete di funzionari che dispensano fatwa o opinioni religiose, in una forza di polizia religiosa che controlla i comportamenti in pubblico; e in decine di migliaia di imam che possono essere sfruttati per diffondere il messaggio del governo dal pulpito»
Negli ultimi tempi però le tensioni tra famiglia Saud e Wahhabi sono cresciute. Per esempio se n’è parlato lo scorso 25 aprile, con la presentazione di “Vision 2030”, che il Financial Times ha definito «il più importante piano di riforme della storia dell’Arabia Saudita». Il piano – che comprende tra le altre cose l’obiettivo di emanciparsi dal petrolio – è stato promosso dal principe Muhammad bin Salman, un leader molto giovane ed energico; è un insieme di riforme particolarmente ambizioso, che sembra avere bisogno di cambiamenti sociali radicali, una specie di rivoluzione nella governance dello stato. È un piano che sembra essere stato studiato per aggirare alcuni grossi ostacoli che impediscono il progresso in Arabia Saudita, tra cui la storica alleanza tra famiglia reale dei Saud e i Wahhabi. Ed è un particolare che bisogna tenere a mente, per capire le contraddizioni che ci sono oggi nella società saudita.
Mohammed bin Salman, incaricato della politica economica e ministro della Difesa dell’Arabia Saudita, durante una visita alla Casa Bianca, Washington, il 17 giugno 2016 (Chip Somodevilla/Getty Images)
Le contraddizioni tra modernità e tradizione
Ben Hubbard ha scritto che per un visitatore occidentale l’Arabia Saudita è «un incomprensibile insieme di urbanismo moderno, cultura del deserto e sforzo mai finito di aderire a una rigida interpretazione delle scritture che risalgono a più di mille anni fa». Dappertutto ci sono enormi centri commerciali, grattacieli e SUV, comparsi e comprati grazie alla vendita del petrolio. Anche la religione è ovunque: i manichini dei negozi sono spesso senza testa, a causa della reticenza a mostrare la forma umana; nei libri di scuola viene spiegato come i ragazzi debbano tagliarsi i capelli e come le ragazze debbano coprirsi il corpo e la faccia; ma uno dei temi più regolati è il rapporto tra uomini e donne. Nei ristoranti ci sono stanze separate per le “famiglie”, cioè gruppi che includono anche le donne, e per “single”, cioè solo gli uomini (per le donne non esiste la possibilità di mangiare da sole). In Arabia Saudita tutte le religioni che non siano l’Islam sono soppresse. Quando si chiede ai sauditi se questo rifletta intolleranza, scrive Hubbard, loro rispondono di no: comparano il loro paese al Vaticano, dicono che è un posto esclusivo per i musulmani, con le proprie regole.
Hubbard ha raccontato che durante il suo periodo in Arabia Saudita, durante il quale ha girato diverse città e ha incontrato molti religiosi, ha sentito poche espressioni dispregiative nei confronti di cristiani ed ebrei, molte di più contro i musulmani sciiti, associati agli arcinemici iraniani (l’Iran è un paese a stragrande maggioranza sciita e nemico dell’Arabia Saudita, soprattutto per ragioni politiche). Tra gli aneddoti che Hubbard ha raccontato nel suo articolo sul New York Times ce n’è uno particolarmente curioso:
«Gli unici sauditi che mi hanno dato dell’infedele sono stati i bambini. Per esempio un giornalista saudita mi ha presentato orgogliosamente sua figlia di nove anni, che frequenta una scuola privata e ha potuto studiare inglese.
“Come ti chiami?”, le ho chiesto.
“Il mio nome è Dana”, ha risposto lei.
“Quanti anni hai?”
“Nove”
“Quand’è il tuo compleanno?”
Confusa, ha cominciato a parlare arabo.
“Non abbiamo cose del genere in Arabia Saudita. Quella è una festa da infedeli”
Scioccato, il padre le ha chiesto dove aveva imparato questa cosa e lei è andata a prendere un libro di testo diffuso dal governo, mostrando la parte che parlava delle “vacanze vietate”: Natale e Ringraziamento. I compleanni facevano parte della stessa sezione.»
L’arroccamento saudita su posizioni legate al wahhabismo ha cominciato però a scontrarsi da diverso tempo con tendenze opposte, con cui gli stessi religiosi stanno cercando di scendere a patti. Una delle più visibili è l’innovazione tecnologica e l’uso dei social media.
Hubbard ha raccontato che in Arabia Saudita la vita pubblica è dominata da sceicchi i cui comportamenti e commenti vengono seguiti sui social network come gli americani seguono le vicende degli attori di Hollywood. «Ci sono sceicchi che vengono considerati sexy dalle donne, e sceicchi neri che si paragonano a Barack Obama»: è il caso di Adil Kalbani, figlio di un migrante povero proveniente dal Golfo Persico che nel 2008 ottenne la possibilità dal re saudita di diventare imam della Grande Moschea della Mecca, uno dei più grandi edifici religiosi al mondo per superficie. La tendenza a regolare tutto tramite fatwa ha portato poi a molta confusione, tra regole riprese dagli estremisti per giustificare le loro azioni e regole che hanno invece provocato molta ilarità. Per esempio c’è una fatwa – ancora disponibile in inglese sul sito del governo – che dice: «Chiunque rifiuti di seguire la retta via merita di essere ucciso o fatto schiavo di modo da ristabilire la giustizia, mantenere la sicurezza e la pace, e salvare le vite, l’onore e la proprietà». E un’altra fatwa – che il responsabile ha poi cercato di ritrattare – secondo cui il personaggio di Topolino dovrebbe essere ucciso, visto che i topi – considerati dalla sharia esseri “corrotti” e “soldati di Satana” – sono stati rivalutati dai bambini proprio a causa del successo di Topolino.
Com’è la vita di un riformatore religioso
Le tensioni e le contraddizioni interne alla società saudita si sono riflesse sulla vita di Ahmad Aziz al Ghamdi. Come ha scritto Hubbard, niente faceva pensare anni fa che Ghamdi potesse diventare un riformatore religioso: dopo essersi laureato, per esempio, cominciò a lavorare in un ufficio governativo per il quale era necessario fare viaggi in paesi non musulmani: ma i religiosi a quel tempo avevano diffuso una fatwa dicendo che non era permesso viaggiare «nei paesi di infedeli, a meno che non fosse necessario», e lui si dimise. Poi cominciò a insegnare economia in un istituto tecnico, ma volle aggiungere al programma – che includeva lo studio del capitalismo e del socialismo – anche del materiale sulla finanza islamica: i suoi studenti si lamentarono del troppo carico di lavoro, e lui se ne andò.
Ghadmi cominciò a pensarla diversamente dopo che divenne membro della polizia religiosa, prima a Gedda, una città portuale sul Mar Rosso, e poi alla Mecca. Si mise a studiare i testi sacri per capire quali fossero realmente i comportamenti permessi e vietati e giunse alla conclusione che molte proibizioni non avevano basi nell’Islam. Nel 2009 scrisse due articoli a riguardo sul giornale Okaz, e poi seguirono altri articoli e apparizioni televisive. Ghadmi non metteva in discussione solo le imposizioni in quanto tali – chiudere i negozi durante le preghiere, richiedere alle donne di coprirsi interamente la faccia, per esempio – ma anche i molti e gravi eccessi della polizia religiosa.
Ghadmi cominciò a essere attaccato duramente da altri religiosi e a ricevere minacce di morte. Anche molti dei religiosi che concordavano con lui su diverse questioni sostennero che nella società saudita non erano tollerati punti di vista diversi da quelli della famiglia reale, legittimata dai Wahhabi. La moglie di un religioso incontrato da Hubbard ha detto, riferendosi a Ghadmi: «Deve seguire il re. Se tutti se ne uscissero con le proprie opinioni saremmo nel caos». Tutta questa situazione, ha scritto Hubbard, è diventata poi ancora più paradossale: sia perché molti sauditi, tra cui membri della famiglia reale e importati religiosi, si sono avvicinati alle posizioni di Ghadmi, anche se non l’hanno reso pubblico; sia perché negli ultimi anni l’Arabia Saudita ha effettivamente introdotto alcune piccole riforme sulla linea di quelle proposte da Ghadmi. Per il momento comunque Ghadmi continua a essere escluso e attaccato da molti importanti religiosi sauditi: l’impressione è che le tensioni tra modernità e tradizione qualcosa stiano muovendo, ma qualsiasi cambiamento – almeno per ora – è permesso solo se viene deciso e promosso dalla famiglia reale. Il resto non è accettato.