Gli scontri in Kashmir dopo l’uccisione di un leader secessionista
Negli ultimi tre giorni sono morte 23 persone negli scontri tra ribelli e forze di sicurezza indiane, i peggiori degli ultimi sei anni
Da tre giorni ci sono degli scontri molto intensi nel Kashmir indiano, la regione che si trova nel nord del subcontinente indiano rivendicata da decenni dall’India e dal Pakistan. Gli scontri sono avvenuti tra i sostenitori del più grande gruppo secessionista del Kashmir, Hizbul Mujahideen, e le forze di sicurezza indiane: sono iniziati sabato, un giorno dopo la morte di Burhan Wani, un giovane e noto comandante ribelle ucciso dalla polizia indiana durante una sparatoria avvenuta vicino all’area di Kokernag, nel sud-est del distretto di Srinagar. Negli scontri degli ultimi tre giorni – i peggiori degli ultimi sei anni – sono rimaste uccise 23 persone. Il governo indiano ha imposto il coprifuoco e disattivato internet, senza però riuscire a fermare le violenze.
Il Guardian ha scritto che Burhan Wani «faceva parte di una nuova generazione di militanti, quelli che ci sanno fare con internet e che usano i social media per diffondere le loro rivendicazioni di indipendenza tra i giovani del Kashmir». Per esempio Wani pubblicava molti post e video su Facebook: nel più recente, lo si vede chiedere agli agenti di polizia di non sostenere “l’occupazione indiana” del Kashmir e di unirsi alla “lotta per la libertà”.
In Kashmir c’è una situazione molto tesa da decenni, soprattutto per le tensioni tra India e Pakistan. La guerra tra i due paesi per il controllo del Kashmir è cominciata quasi settant’anni fa, quando entrambi divennero stati sovrani indipendenti, anche se su idee profondamente diverse di nazionalismo: il nazionalismo indiano, rappresentato da Partito del Congresso e dal suo leader Jawaharlal Nehru, si sviluppò sull’idea di paese laico, multiculturale e multireligioso. Lo stato pakistano si sviluppò invece attorno alle idee di Muhammad Ali Jinnah, basate sull’Islam come elemento culturale comune della popolazione. Lo stato del Kashmir fu un’eccezione nel contesto della spartizione su base religiosa, perché nonostante la sua popolazione fosse in maggioranza musulmana, il sovrano hindu – il Maharaja Hari Singh – decise di firmare l’annessione all’Unione Indiana.
Ne seguì la prima guerra per il Kashmir, che si concluse solo nel 1949 con la divisione della regione in due parti: il Jammu Kashmir, assegnato all’India, e lo Azad Kashmir, assegnato al Pakistan. Da allora il Pakistan ha continuato a rivendicare il Kashmir indiano – quello più esteso, con capitale Srinagar – decidendo per politiche sempre più aggressive, tra cui il sostegno di movimenti insurrezionali. Nel 1965 cominciò la cosiddetta “seconda guerra del Kashmir”, che durò per cinque mesi e si concluse con migliaia di persone uccise o catturate, senza però che venisse trovata una soluzione definitiva. Negli anni successivi ci furono altri scontri, ma quasi tutti a bassa intensità: l’ultimo episodio di violenza rilevante è stato nel 1999, quando le truppe pakistane attraversarono la linea di confine e occuparono la zona di Kargil, sotto l’amministrazione indiana, e poi vennero respinte indietro. Nel 2003 i due governi stabilirono una specie di tregua, che in molti considerano durare ancora oggi, nonostante gli scontri a bassa intensità del 2008 e del 2013.