La volta che abbiamo invaso la Russia
Accadde il 10 luglio 1941, quando Mussolini decise di attaccare l'Unione Sovietica in quella che divenne la più tragica spedizione del fascismo
Il 10 luglio del 1941 venne costituito il Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR), il primo nucleo di quello che sarebbe diventato il grande esercito con cui il dittatore Benito Mussolini partecipò all’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista. La spedizione partì fra grande ottimismo, ma si rivelò una delle più tragiche e fallimentari del fascismo. Nel momento di massimo coinvolgimento italiano, nell’autunno del 1942, quasi 300mila soldati italiani, male equipaggiati e mal condotti, si trovavano in Russia. Alla fine delle operazioni più di uno su tre era morto o era rimasto ferito.
L’invasione della Russia fu un’operazione voluta fin dall’inizio da Mussolini, su cui erano scettici parte dei comandi italiani e lo stesso Adolf Hitler, che nel corso dei mesi precedenti aveva già sperimentato quanto fosse impreparato alla guerra moderna l’esercito italiano. Hitler si fidava così poco dei suoi alleati italiani – nonostante la stima personale che aveva per Mussolini – che non diede loro notizia dell’invasione fino alla notte del 22 giugno 1941, pochi minuti prima che l’artiglieria tedesca aprisse il fuoco sulle postazioni russe.
Il CSIR fu messo in piedi relativamente in fretta per gli standard italiani: il 10 luglio l’unità venne costituita e per la fine del mese quasi tutte le truppe erano schierate nel sud dell’Ucraina. Si parla di circa 65mila uomini, raggruppati in tre divisioni e clamorosamente impreparati alla guerra moderna. C’erano così pochi automezzi che soltanto una delle tre divisioni poteva essere autotrasportata, mentre le altre due avrebbero dovuto procedere a piedi (di fatto gli autocarri furono usati più o meno a turno, trasportando ora questa ora quella divisione). L’aviazione era poco numerosa e l’artiglieria era costituita in gran parte da cannoni già utilizzati durante la guerra in Libia, circa 40 anni prima. Per quanto riguarda i carri armati, una delle nuove armi più importanti nella Seconda guerra mondiale, la situazione era ancora peggiore. Ce n’erano appena 60, di cui 20 furono subito ritirati per essere utilizzati come serbatoi di parti di ricambio per gli altri 40. E in più erano piccoli, lenti, mal corazzati, male armati e del tutto incapaci di far fronte ai carri armati russi.
Inizialmente le operazioni andarono molto bene e gli italiani avanzarono al fianco dei tedeschi, generalmente con ruoli di supporto. Le unità di carri armati tedesche compivano avanzate rapidissime che isolavano gruppi di decine e a volte centinaia di migliaia di soldati russi. Toccava poi alla fanteria tedesca e a quella italiana eliminare gli ultimi rimasti a combattere e raccogliere i prigionieri. Nel corso di uno di questi episodi il reggimento Savoia Cavalleria compì quella che è probabilmente una delle ultime cariche all’arma bianca della storia, quando alla fine dell’estate riuscì a catturare alcune centinaia di prigionieri al prezzo di alcune decine di morti. Ma con l’arrivo dell’inverno l’avanzata si arrestò. Prima il fango e poi il freddo costrinsero gli eserciti dell’Asse a fermarsi e a subire il contrattacco dei russi. Dotati di equipaggiamenti inadeguati o comunque usurati dalla rapida avanzata dell’estate precedente, gli italiani subirono gravi perdite e furono costretti ad arretrare.
La primavere successiva, Mussolini decise di trasformare il corpo di spedizione in una vera e propria armata. Inviò altre divisioni male equipaggiate e portò il totale delle truppe impegnate in Russia a 295 mila. Quando con il bel tempo la campagna riprese, gli italiani si trovarono al centro dell’azione, poiché Hitler aveva deciso che la principale direttrice della nuova avanzata sarebbe stata quella meridionale, attraverso l’Ucraina. Al CSIR diventato ARMIR (al regime fascista piacevano molto le sigle: significava Armata Italiana in Russia) venne affidato, insieme agli alleati rumeni e ungheresi, il compito di sorvegliare il fianco sinistro della Sesta Armata tedesca, l’enorme unità composta da più di 300 mila uomini che nell’estate del 1942 stava iniziando a concentrarsi attorno Stalingrado.
Mentre in città era in corso quella che sarebbe diventata una delle più grandi battaglie della Seconda guerra mondiale, le linee italiane rimasero tranquille per gran parte del 1942. Ma, in pieno inverno, i russi scelsero proprio le posizioni occupate da italiani e rumeni per contrattaccare. Le linee cedetterro, Stalingrado venne circondata – vi restarono intrappolati anche 77 italiani che si trovavano là per errore – mentre il resto dell’esercito dell’asse fu costretto a retrocedere in una lunga e terribile ritirata che sarebbe finita soltanto nella primavera del 1943, circa seicento chilometri più a occidente. Furono settimane tragiche, in cui il gelo e gli attacchi russi causarono perdite e sofferenze enormi agli italiani in ritirata. Questa ritirata attraverso la steppa è stata raccontata da numerosi romanzi di grande successo, come “Centomila gavette di ghiaccio“, di Giulio Bedeschi, e “Il sergente nella neve“, di Mario Rigoni Stern.
Il bilancio dell’operazione fu spaventoso, e l’Italia pagò un prezzo altissimo per la sua decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Trentamila soldati rimasero feriti, altri 80mila furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri. Di questi ultimi, moltissimi morirono nelle terribili marce compiute nella neve gelida verso i campi di prigionia, oppure di stenti e di malattia una volta giunti a destinazione. L’Unione Sovietica restituì 10mila prigionieri italiani. Di circa altri 75mila soldati non si seppe più nulla.