Chi ha sbagliato sulle banche
Tutti, secondo Ferruccio De Bortoli, che sul Corriere suggerisce cambi drastici di approccio e non rammendi
Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e importante commentatore politico, ha pubblicato oggi un editoriale molto duro in cui accusa diverse categorie di essere complici della cattiva situazione delle banche italiane. È un tema su cui in questi giorni si sono espressi commentatori e figure istituzionali, la cui opinione comune è che gran parte dei problemi del settore finanziario italiano hanno origine fuori dal nostro paese (nell’atteggiamento della Germania, negli “speculatori internazionali”, nelle crisi britannica e greca) e che quindi le responsabilità della classe dirigente italiana sono molto ridotte.
De Bortoli dice che è vero che gli stranieri hanno un’opinione pregiudiziale dell’Italia, che molte banche all’estero sono state gestite male tanto quanto quelle italiane e che una parte dei nostri problemi effettivamente non dipende da noi. In maniera inusuale, però, conclude il suo commento ricordando le responsabilità della classe dirigente italiane (di cui diversi esponenti sono importanti azionisti proprio del Corriere della Sera): «Rinchiudersi nei recinti corporativi o agitare la bandiera degli interessi nazionali, guardando l’erba del vicino che non è più verde della nostra, non serve a nulla. E non ci risparmia da sofferenze future».
C’è sicuramente un po’ di esagerazione e strumentalità nel modo in cui la stampa estera parla delle banche italiane. Conoscendo i misfatti di grandi istituti internazionali (lo scandalo della manipolazione del tasso interbancario libor, per esempio), alcuni giudizi sono decisamente stonati. Analisi impietose confondono i tanti che nell’esercizio del credito fanno bene il loro mestiere, con i pochi che hanno infranto regole o dimostrato imperizia colpevole. Ma l’immagine all’estero, salvo poche eccezioni, è purtroppo questa. La stessa copertina dell’Economist, con quella sgangherata corriera tricolore sull’orlo del precipizio e il titolo Italian Job, affare italiano, non fa certamente piacere nonostante il settimanale sostenga, sulla materia, le ragioni del nostro governo in Europa.
Possiamo chiedere a Handelsblatt, severissimo, di applicare lo stesso metro di giudizio a Deutsche Bank, che «riposa» su una quantità stratosferica di derivati, 14 volte il prodotto interno lordo della Germania. Il dissesto della Landesbank di Brema è un’altra spia della fragilità del sistema tedesco. Ma la realtà non cambia. Per salvare Monte Paschi di Siena — che, ricordiamo, oggi è in utile — liberare gli istituti dal peso dei crediti in sofferenza, mettere in condizione il sistema, anche con denaro pubblico, di affrontare al meglio i prossimi esami della Bce (gli stress test), bisognerà trattare a Bruxelles e a Francoforte con chi nutre nei nostri confronti sentimenti non diversi.
Nel suo appassionato discorso all’ultima assemblea dell’Abi, l’associazione delle banche, il presidente Antonio Patuelli, ha denunciato l’incostituzionalità del cosiddetto bail in. Ovvero le norme che subordinano un eventuale intervento statale a una perdita di valore, nell’ordine, per azionisti, obbligazionisti subordinati e senior e, se non bastasse, i correntisti con più di 100 mila euro. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha ribadito le sue critiche alla normativa europea scritta su misura dei più forti, ovvero i tedeschi. Ha ridimensionato il problema dei crediti deteriorati. Quelli in sofferenza ammontano a 87 miliardi, al netto delle svalutazioni, di cui 50 coperti da garanzie reali. Tutto giusto. Ma rimane il piccolo particolare che le abbiamo condivise anche noi le nuove regole, peraltro applicate, con perdite per gli azionisti e obbligazionisti, in numerosi altri Paesi. Questo fuoco di fila di eccezioni andava sollevato per tempo. Invece, come accade sovente in Italia, norme comunitarie sono entrate nel nostro ordinamento giuridico nel disinteresse generale quando non nella colpevole disattenzione. Noi giornalisti abbiamo le nostre responsabilità. Il cane, o il cucciolo da guardia del potere, si era assopito.
Il premier Renzi ha detto a Porta a Porta che la normativa sul bail in gli è «arrivata cotta e mangiata». E ha aggiunto, in questi giorni, che gli errori sono stati compiuti dai suoi predecessori. Sicuro che non avrebbe potuto bloccarla nel febbraio 2014? Conoscere l’identità dei cucinieri distratti sarebbe opportuno. Un po’ di chiarezza, con qualche coraggiosa ammissione di responsabilità, non costituirebbe un gesto doveroso nei confronti di risparmiatori e investitori? Non avrebbe una funzione preventiva per evitare futuri errori? L’economista Nicolas Véron, intervistato ieri sul Corriere da Federico Fubini, ha accusato l’Italia di aver «posposto troppo a lungo» i problemi bancari nel 2014 e nel 2015.
Il peggior difetto della classe dirigente italiana è il conformismo autoassolutorio. La vicenda bancaria ne è una prova. Dopo la crisi dei subprime del 2008 (il crollo dei fondi immobiliari oggi suona sinistramente simile), le reazioni dei governi sono state diverse. Molte tempestive e adeguate. Gli americani hanno usato fondi pubblici per salvare i loro istituti. Così è stato nel mondo anglosassone. I tedeschi lo hanno fatto a piene mani (447 miliardi) finché le regole europee glielo hanno consentito e persino oltre. Gli spagnoli si sono affidati al fondo europeo. Cioè hanno messo a posto le loro banche anche con soldi nostri. Una beffa se si pensa che i guai di Monte Paschi nascono dal folle acquisto, nel 2007 per nove miliardi, di Antonveneta da Santander! Ci siamo cullati nella retorica nazionalista che le nostre banche, non avendo esagerato con i derivati, fossero immuni.
Ma il sistema non era immune dall’eccesso di credito, elargito con generosità prociclica, soprattutto nell’immobiliare, nei momenti in cui la prudenza non avrebbe fatto difetto. Dal 2008 a oggi l’Italia ha perso un decimo del reddito e un quarto della produzione. Ciò spiega la crescita delle sofferenze, ma non giustifica tutti i comportamenti. Non assolve consiglieri e dirigenti che hanno dato soldi alle persone sbagliate con garanzie insufficienti o non si sono accorti della montagna di non performing loans che cresceva nei propri bilanci. O hanno coltivato qualche conflitto d’interesse di troppo. Un esempio fra i tanti: nel bilancio del 2002 del Monte Paschi, a pagina 157, si leggeva che i crediti a favore di amministratori della banca o di loro società erano stati pari a 2,7 miliardi. La lunga recessione non è un’attenuante per chi ha scommesso, sbagliando, su una ripresa annunciata come robusta e che avrebbe risolto il problema con un’espansione delle attività. E tanto valeva, nell’attesa, sottostimare o nascondere un po’ di polvere sotto i tappeti.