Il femminismo distorto di Game of Thrones
Una giornalista del Washington Post ragiona sul nesso tra le azioni degli importanti personaggi femminili e gli abusi che hanno subìto
di Alyssa Rosenberg – The Washington Post
Scrivo di Game of Thrones da quando sono diventata una critica professionista a tempo pieno. Nello specifico, mi occupo di come la saga di George R.R. Martin e la serie tv di HBO parlino, fondamentalmente, dell’influenza dannosa che la misoginia ha su uomini, donne e intere nazioni. La serie tv di Game of Thrones non è sempre stata all’altezza delle idee più potenti contenute nei libri di Martin: ci sono immagini di prostitute nude usate come contorno e scene di stupro che, secondo i creatori della serie David Benioff e D.B. Weiss, vanno viste come scene di sesso. Nonostante nella sesta stagione della serie i suoi creatori abbiano dovuto tenere alcuni personaggi in sospeso fino al momento in cui la loro storia potesse ripartire e la violenza periodicamente sfiorasse l’insostenibile, mai come quest’anno Game of Thrones ha realizzato le sue ambizioni di esplorare cosa significa sopravvivere a uno stupro, a un matrimonio forzato e ad altri aspetti del patriarcato e della schiavitù.
Dalla sanguinosa vittoria di Sansa Stark nella Battaglia dei bastardi alla distruzione del Grande Tempio di Baelor da parte di Cersei Lannister, in Game of Thrones le donne hanno preso il potere pagando però un prezzo alto e terribile, che ha dimostrato l’impotenza degli individui nei confronti dei sistemi che li plasmano e deformano. Uno dei momenti più impressionanti dell’ultimo episodio della sesta stagione, I venti dell’inverno, è arrivato quando Cersei – che aveva appena dato fuoco alla maggior parte dei suoi nemici – si prende il tempo per compiere una vendetta più personale. Cersei affida la sua ex aguzzina, septa Unella, a Ser Gregor Clegane (Montagna), con la promessa di accecarla, torturarla e, forse, stuprarla. Cersei sarà anche libera, ma non si è liberata: ha conquistato un rinnovato senso di sicurezza passando la propria persecuzione – dallo stupro subito da Robert Baratheon alla decisione dell’Alto Passero di farla sfilare nuda per le strade di Approdo del Re – e la sua vergogna a qualcun altro. Sappiamo da tempo che Cersei è una persona crudele ed egoista: è disposta a usare suo cugino Lancel Lannister per uccidere suo marito Robert e permettere a suo figlio Joffrey di torturare Sansa. Non so se ho provato più tristezza per la crudeltà di Cersei o per averla vista chiudere la porta della stanza dove era rinchiusa septa Unella mentre ripeteva «vergogna, vergogna, vergogna». Certamente, in quella scena septa Unella merita la nostra compassione più di Cersei. Ma mai come ora è emerso chiaramente quanto Cersei sia limitata. Per quanto abbia lottato per sbarazzarsi di un marito che odiava e per portare avanti gli inganni che avrebbero potuto permettere ai suo figli di governare, Cersei non è un personaggio che cambia. Le uniche strategie che conosce, le sole armi a sua disposizione, sono quelle che sono state usate contro di lei.
Cersei non è sicuramente l’unica donna in Game of Thrones che ha sfogato la sua rabbia su un’altra donna, o che ne ha calpestato il corpo durante la sua ascesa verso l’apice della società. Nella prima stagione di Game of Thrones Daenerys Targaryen brucia viva la strega Mirri Maz Duur, dopo che l’incantesimo di sangue della donna aveva salvato la vita del marito di Daenerys lasciandolo però in stato vegetativo, e uccidendo il figlio di Daenerys. In un certo senso, Daenerys sta punendo Mirri per la propria impulsività: non aveva chiesto il prezzo che avrebbe dovuto pagare per il potente incantesimo, né era stata abbastanza prudente da assicurarsi di ottenere il risultato che avrebbe voluto. Quando però Dany lega Mirri alla pira funeraria del marito e ci entra insieme alle sue uova di drago, dimostra di essere resistente al fuoco usando il sangue di un’altra donna.
La morte di Mirri crea uno schema per Daenerys. In tutta la serie, il suo personaggio abbraccia l’idea di diventare un sovrano diverso, capace di porre fine alla schiavitù, bruciare i khal che vogliono rinchiuderla per tutta la vita, convincere gli abitanti delle Isole di Ferro a rinunciare a stupri e saccheggi, ed emanare leggi giuste. Ma ha sempre ottenuto il potere usando la forza e saltando il processo che avrebbe portato alla formazione di nuove società. Ha abbandonato Meereen in sella a Drogon quando i suoi tentativi di combattere i Figli dell’Arpia erano arrivati a un punto morto, e ora ha lasciato il suo amante, Daario Naharis, nella città-stato per vigilare sulla selezione dei nuovi capi mentre lei naviga verso Westeros con una flotta d’invasione. Daenerys potrà anche aver ottenuto da Yara Greyjoy la promessa di cambiare la cultura degli abitanti delle Isole di Ferro e messo in soggezione i khaalsar di Vaes Dothrak, ma le parole con cui i membri della coalizione di Daenerys si impegnano ad abolire secoli di tradizioni e pratiche potrebbero non essere più forti del vento che spinge la sua flotta verso occidente. Anche se forse Daenerys può sfuggire al marchio della pazzia di suo padre, questo non vuol dire che sia in grado di trasformare il mondo. Finora è riuscita a giustificare ogni suo fallimento e a lasciarsi alle spalle i tentativi di governo interrotti perché il suo vero obiettivo, Westeros, è ancora davanti a sé. Ma cosa succederà quando otterrà l’oggetto dei suoi desideri rimane una domanda dolorosamente aperta.
A Nord, la trama intorno al personaggio di Sansa Stark spiega i rischi che corrono le donne potenti quando si affidano ai vecchi strumenti per sostenere la propria autorità. Se Daenerys può mettere i suoi draghi al servizio della sua promessa di cambiamento, l’unica arma a disposizione di Sansa è il suo nome. La sua discendenza dagli Stark ha fatto ottenere a Sansa la fedeltà di Brienne di Tarth e l’appoggio di Lyanna Mormont, la piccola ma vivace signora dell’Isola dell’Orso. Ma la mentalità profondamente radicata degli Stark a Grande Inverno finisce per prendere una piega inaspettata per Sansa: prima che lei e Jon Snow possano decidere chi di loro governerà, Lyanna raduna i signori della regione per riconoscere Jon come re del Nord. Sembra che Sansa non possa invocare un elemento legato alla tradizione senza innescare il sessismo che vuole un uomo a capo di Grande Inverno.
Le donne non sono le sole a trovarsi intrappolate da strumenti, tradizioni e traumi intergenerazionali del passato. Nella sesta stagione di Game of Thrones abbiamo assistito alla tanto attesa morte di Ramsay Bolton, un mostro spregevole che aveva ucciso suo padre Roose a pugnalate e che aveva dato in pasto ai suoi cani la sua matrigna e il suo fratellastro appena nato. Ma per quanto dolore Ramsay avesse inflitto ad altre persone, era a sua volta il prodotto della misoginia che lui stesso incarnava in modo così tremendo. Ramsay era nato da una donna che Roose aveva stuprato per affermare la sua autorità sulla terra che controllava. Il suo rancore e il suo comportamento predatorio erano il risultato delle libertà concesse agli uomini di Westeros, e rappresentavano una reazione non del tutto irrazionale a un sistema di successione che prima lo aveva privato dei suoi diritti, poi lo aveva riammesso, e aveva finito con l’escluderlo di nuovo.
Samwell Tarly crescendo è diventato un uomo radicalmente diverso da Ramsay Bolton. Durante il viaggio a sud per iniziare gli studi per diventare maestro, però, Sam si ferma nel castello dove è nato, dove riusciamo a farci un’idea degli standard aridi e virili imposti dal padre. Forse Sam è stato spedito tra i Guardiani della Notte come punizione per non essere riuscito a dimostrarsi all’altezza delle aspettative del padre su cosa significhi essere un signore di Westeros. Essere bandito dalla società “civilizzata” ha però dato a Sam la possibilità di diventare una persona perbene, in un modo che non gli sarebbe mai stato consentito dalla sua famiglia. Se da una parte l’evirazione di Theon Greyjoy e le discriminazioni e gli abusi che Tyrion Lannister ha subito per tutta la vita rappresentano delle tragedie, la loro diversità ha anche aperto loro nuove opportunità nella convulsa lotta per il Trono di Spade. Rinunciando alle sue ambizioni e sostenendo sua sorella Yara, Theon ha trovato in un certo senso la pace. Forse si sta ancora pentendo dei suoi crimini, ma non è più la persona capace di massacrare due bambini per rivendicare un castello. Gli anni che Tyrion ha passato a osservare altri sovrani, vista la sua esclusione dai ruoli tradizionalmente riservati ai nobili, hanno fatto sì che sviluppasse le capacità di cui Daenerys ha bisogno: non un guerriero abile con la spada, ma un uomo con una mente agile, in grado di controllare che la regina conservi la sua sanità mentale.
Se la sesta stagione di Game of Thrones si occupa dei danni e della violenza che vengono trasmessi da una generazione all’altra, la lotta di Melisandre con la sua fede e la comprensione del prezzo umano delle sue convinzioni ci mostra cosa può succedere quando una persona vive quel tipo di devastazione per un tempo lunghissimo. Quando la incontriamo per la prima volta nella serie, Melisandre si fida moltissimo della sua capacità di interpretare le sue visioni e usa il suo corpo per realizzare quelli che crede siano i desideri del Signore della Luce. Ma quando i tentativi di Stannis Baratheon di arrivare al Trono di Spade sono a rischio, Melisandre prende una decisione drastica: fa bruciare viva la figlia di Stannis, Sheeren, provocando anche il suicidio di sua moglie Selyse. Stannis pagherà questo gesto con la vita. Come abbiamo imparato all’inizio di questa stagione, però, Melisandre in realtà è vecchia: sapere che deve portare il peso della morti di Shireen e Selyse, e di tutti i crimini dovuti alla sue interpretazioni sbagliate, fa pensare che debba sopportare un fardello morale ancora più pesante, mentre Stannis si è liberato del suo con la morte. «Non ho mentito, mi sono sbagliata», dice dispiaciuta Melisandre a Ser Davos, che l’affronta per l’uccisione di Shireen. «Sono pronta a morire da molti anni». Più di Cersei e Daenerys, Melisandre è consapevole dei suoi limiti e delle terribili azioni che ha compiuto per un dio che le si rivela solo in modo intermittente.
A Dorne, Olenna Tyrell confessa di aver abbandonato ogni speranza che ci possa essere un governo più umano ad Approdo del Re e che lei possa sopravvivere, dopo che Cersei ha ucciso Margaery e Loras Tyrell nel Grande Tempio di Baelor. Quello che il suo cuore desidera, come le dice Elaria Sand, ora è solo il «fuoco e sangue», che Varys sostiene potrà arrivare da un’alleanza con Daenerys. La disperazione di Olenna sottolinea un’idea inquietante: la vendetta, e non la giustizia, è tutto quello che persino le donne più potenti di Westeros ed Essos hanno a disposizione. Guardare la mascella del proprio stupratore che viene dilaniata dai suoi stessi cani e dare fuoco ai propri aguzzini può anche generare un lampo di euforia. Ma la libertà è un’altra cosa.
© 2016 – The Washington Post