Perché nessuno compra il diamante più grosso del mondo
È stato messo all'asta ed è rimasto invenduto, le ragioni sono almeno tre: e una è che siamo diventati molto bravi a costruire quelli "finti"
Il 29 giugno scorso, a Londra, si è tenuta l’asta per vendere Lesedi La Rona, il più grande diamante grezzo scoperto nell’ultimo secolo. Lesedi La Rona ha 1.109 carati ed è grande come una pallina da tennis: è stato trovato nel novembre 2015 da alcuni minatori in Botswana – nel linguaggio Tswana, una lingua parlata nel Botswana, il suo nome significa “la nostra luce” – e si crede che abbia oltre 2,5 miliardi di anni. Nonostante l’eccezionalità del diamante, l’asta per la vendita di Lesedi La Rona non è andata affatto come ci si aspettava. Il diamante è rimasto invenduto: era offerto in asta per 52 milioni di sterline (62 milioni di euro), ma i rilanci si sono fermati a circa 45 milioni di sterline (53 milioni di euro). La società canadese che aveva acquisito la proprietà del diamante, Lucara Diamond, ha detto che dopo il fallimento dell’asta le sue quote sono crollate di oltre il 14 per cento alla Borsa di Toronto.
La notizia del fallimento dell’asta è stata ripresa da diversi giornali e siti di news di tutto il mondo, tra cui l’Economist, che ha provato a spiegarne i motivi. Secondo l’Economist, ci sono tre ragioni per la mancata vendita di Lesedi La Rona, legate per lo più all’intera industria dei diamanti: una sempre maggiore consapevolezza sulle attività illegali collegate alla vendita di diamanti, le nuove regole introdotte nell’industria finanziaria dopo la gravissima crisi mondiale del 2007-2008 e lo sviluppo di nuove tecnologie.
Uno dei problemi più grandi dell’industria di diamanti è la sua scarsa popolarità tra la generazione dei cosiddetti “millennial”, cioè tra i nati dalla metà degli anni Ottanta in poi. I millennial avrebbero dovuto essere la clientela del futuro, ma le cose sono andate diversamente: negli ultimi vent’anni anni i diamanti sono stati associati sempre più spesso alla guerra civile che si combatté in Sierra Leone negli anni Novanta, che uccise decine di migliaia di persone e provocò più di due milioni di profughi. Una delle iniziative più grandi e importanti prese a livello internazionale dopo la guerra è stata il Kimberley Process, un accordo sottoscritto tra 75 paesi e diverse multinazionali produttrici di diamanti e finalizzato a certificare che i profitti ottenuti dalla vendita dei diamanti non fossero usati per finanziare guerre civili. Nonostante gli sforzi, il Kimberley Process ha ricevuto nel tempo diverse critiche: per esempio nell’ultimo anno diverse organizzazioni internazionali hanno accusato il paese che detiene la presidenza, gli Emirati Arabi Uniti, di adottare delle politiche meno rigide per quanto riguarda la vendita di diamanti provenienti dalla Repubblica Centrafricana, dove è in corso una guerra.
Un altro problema che sta attraversando l’industria di diamanti è la difficoltà a completare transazioni finanziarie a causa delle nuove regole sulla trasparenza – molto rigide – introdotte dopo la grave crisi finanziaria mondiale del 2007-2008. Per esempio questo mese Standard Chartered, un’importante società finanziaria internazionale con sede a Londra, ha annunciato la chiusura della sua unità che si occupava di finanziare le attività riguardo allo sfruttamento dei diamanti, sostenendo che era al di là del limite del rischio che si è imposta. Le nuove regole stanno creando problemi soprattutto agli intermediari medio-piccoli, cioè coloro che comprano diamanti grezzi e che poi li trasportano a città come Antwerp (Belgio) e Mumbai (India) per le operazioni di taglio successive.
A questo va aggiunto il fatto che da tempo in diversi paesi del mondo si stanno sviluppando le tecnologie per riprodurre i diamanti in laboratorio. Lo scorso anno, per esempio, la società californiana Diamond Foundry ha cominciato a produrre diamanti grezzi di qualità quasi indistinguibile da quelli scavati e trovati nel terreno. Questi diamanti vengono prodotti in un reattore al plasma che raggiunge temperature prossime a quelle della superficie del sole: gli atomi di carbonio liberati dalle molecole di gas si depositano sul reticolo cristallino di un piccolo diamante naturale, o su un substrato esterno, permettendo la crescita di un nuovo diamante. Spesso le società che producono diamanti in laboratorio cercano di attrarre nuovi clienti attaccando l’attività mineraria tradizionale, quella che porta alla scoperta dei diamanti ma che allo stesso tempo è criticata per le sue implicazioni etiche. Come ha scritto l’Economist, uno dei sostenitori di Diamond Foundry è Leonardo DiCaprio, che fu il protagonista del film Blood Diamond (2006), che racconta la storia del traffico di contrabbando di diamanti tra la Sierra Leone e la Liberia.