Perché succedono così tanti attentati in Turchia?
Nell'ultimo anno c'è stato un attacco terroristico al mese: cosa sta avvenendo nel paese un tempo ritenuto il più sicuro del Medio Oriente
L’attentato di martedì 28 giugno all’aeroporto di Istanbul, che ha causato la morte di almeno 41 persone, è il quattordicesimo attacco terroristico avvenuto in una città turca a partire da giugno 2015. Almeno otto di questi attacchi, ha scritto il New York Times, sono stati compiuti da gruppi curdi. In seguito agli attentati di questi mesi il turismo in Turchia è crollato: ad aprile le presenze di turisti stranieri sono scese del 28 per cento rispetto all’anno precedente. Fino a poco tempo fa la Turchia era considerata il paese più stabile del Medio Oriente: oggi invece è uno stato autoritario che nell’ultimo anno ha subìto una media di un attentato terroristico al mese. Dietro quello che sta succedendo ci sono ragioni politiche, tensioni etniche durate per decenni e la personalità difficile e imprevedibile del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan.
La guerra in Siria
La ragione principale della situazione turca è il fatto che la Turchia condivide 822 chilometri di confine con la Siria, un paese che oramai da cinque anni è coinvolto in una caotica e sanguinosa guerra che ha destabilizzato diversi paesi del Medio Oriente. Il vicino Iraq, per esempio, è uno di quelli che ha subìto più le conseguenze della guerra, anche perché lo Stato Islamico – il principale gruppo che combatte in Siria e che non è allineato con il presidente Bashar al Assad – ha avuto origine proprio dall’Iraq. Ma i problemi hanno riguardato anche il Libano, in particolare le zone di confine con la Siria.
Il governo turco si è trovato coinvolto nella guerra siriana praticamente da subito, nel 2011, quando ha cominciato ad appoggiare i gruppi di ribelli che combattevano contro Assad, il principale nemico della Turchia assieme ai curdi. La Turchia ha fornito ai ribelli appoggio logistico, basi nel suo territorio e in alcuni casi armi e munizioni: ha scelto spesso i suoi alleati non facendo troppo caso a quanto fossero estremisti, e per raggiungere i suoi obiettivi – sconfiggere Assad e i curdi – ha chiuso più di un occhio nei confronti dello Stato Islamico. Per esempio per anni i cosiddetti “foreign fighters” diretti in Siria hanno potuto liberamente atterrare a Istanbul o nella città meridionale di Gaziantep e oltrepassare senza difficoltà il confine siriano. La facilità di accedere alla Siria ha fatto sì che la Turchia venisse soprannominata “autostrada del jihad”.
Dopo la grande operazione militare dell’estate del 2014 che portò alla nascita del cosiddetto “Califfato Islamico”, la Turchia ha lentamente modificato il suo atteggiamento, soprattutto grazie alla pressione dell’Occidente. Molte reti di reclutamento sono state smantellate, migliaia di sospetti simpatizzanti dei gruppi estremisti sono stati arrestati e il confine ha iniziato a essere sorvegliato in maniera più rigida. Il cambio di strategia ha provocato una reazione e lo Stato Islamico ha iniziato a compiere diversi attacchi in rappresaglia contro obiettivi civili turchi. Non solo: scegliendo accuratamente i suoi primi bersagli all’interno della comunità curda, ha aiutato molto a rinfocolare le tensioni etniche che dividono la Turchia.
I curdi
L’altra grande fonte di instabilità, legata con le due precedenti, sono propri i curdi. Circa il 20 per cento degli abitanti della Turchia è di lingua curda, un gruppo etnico a lungo perseguitato che ha condotto una guerra civile durata trent’anni anni per ottenere maggiore autonomia. Nel 2013 la principale milizia indipendentista curda, il PKK, ha raggiunto una tregua precaria con il governo turco. Ma l’estate scorsa il processo si è arrestato, tra accuse reciproche di sabotaggio. Pochi mesi prima Erdoğan non era riuscito a ottenere la maggioranza alle elezioni e così, secondo molti analisti, aveva deciso di alzare il livello dello scontro con i curdi per coalizzare intorno a sé tutte le forze politiche turche, presentandosi come l’unico leader in grado di mantenere ordine nel paese. Sfruttando alcuni piccoli scontri avvenuti nel sud della Turchia (alcuni poliziotti furono uccisi da miliziani curdi come rappresaglia per l’appoggio dato dalla Turchia agli estremisti islamici in Siria), Erdoğan aveva iniziato una campagna di bombardamenti e attacchi contro le posizioni del PKK nel sud della Turchia.
In risposta i miliziani curdi hanno costruito barricate e occupato strade ed edifici nelle città a maggioranza curda del sud della Turchia. L’esercito turco ha risposto imponendo il coprifuoco e attaccando le barricate con carriarmati, artiglieria e a volte persino bombardamenti aerei, causando alle città danni devastanti. Ma oltre a condurre una guerriglia urbana e nelle montagne, alcuni gruppi legati al PKK hanno portato la guerra anche nelle città turche, compiendo attacchi che a volte hanno coinvolto attentatori suicidi.
Erdoğan
Secondo gran parte dei commentatori, buona parte di questa situazione è stata causata più o meno direttamente dalle scelte del presidente Erdoğan. È stato lui a decidere di utilizzare gli estremisti islamici per cercare di rovesciare il regime di Assad – come ha raccontato in un’intervista il re di Giordania Abdullah: «Erdoğan crede che l’islamismo radicale possa essere la soluzione ai problemi della regione» – ed è stata sua la scelta di arrivare a un’escalation del conflitto con i curdi invece di cercare una soluzione pacifica. E lo ha fatto per un calcolo soprattutto elettorale: vincere le elezioni dello scorso novembre (un obiettivo che è riuscito a raggiungere).
Anche i curdi, probabilmente, hanno una dose di responsabilità in questa situazione. La situazione turca «è stata esacerbata», ha scritto John Hannah, ricercatore presso la Foundation for Defense of Democracies, su Foreign Policy, «dalla nascita di un’entità autonoma curda nel nord della Siria». Si tratta di un’area con una forte presenza di curdi siriani che nel corso degli ultimi anni hanno ricevuto massicci aiuti da parte del PKK turco. Le milizie curde siriane, l’YPG – quelli che hanno difeso Kobane e che sono da molti considerati una delle forze più efficaci nel combattere l’ISIS – sono guidate e in buona parte composte da volontari curdi di origine turca.
Le milizie dell’YPG sono riuscite a ottenere grossi successi in Siria, arrivando di fatto a controllare una regione che occupa buona parte degli 800 chilometri di confine tra Siria e Turchia. Erdoğan non ha mai cercato di collaborare con questa entità, ma l’ha subito definita una minaccia vitale alla Turchia. I curdi, dal loro canto, sono spesso rimasti impressionati dal successo ottenuto in Siria e hanno cercato in qualche misura di replicarlo all’interno dei confini turchi. I risultati però, almeno per ora, non sono stati altrettanto positivi.