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  • Martedì 28 giugno 2016

Il Regno Unito uscirà davvero dall’Europa?

Dopo il risultato del referendum non è chiaro come non potrebbe accadere, eppure adesso nessuno sembra volerlo veramente

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

(ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)
(ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)

Negli ultimi giorni, si è parlato molto di un commento a un articolo del Guardian pubblicato domenica 26 giugno. Secondo l’autore, noto semplicemente come “Teeb“: «Se ieri Boris Johnson – il leader della campagna del “Leave” – vi è sembrato abbattuto è perché si è reso conto di aver perso». Quasi tutti gli analisti sono concordi nel dire che Johnson è il vincitore del referendum del 23 giugno, ma secondo Teeb è vero l’opposto: il leader dei “Leave” è stato messo nel sacco dal dimissionario primo ministro inglese David Cameron, considerato da tutti il grande sconfitto del voto.

[Se Johnson] si candiderà alle elezioni interne al partito e non invocherà l’articolo 50 [che dà inizio alla procedura di uscita dall’Unione, senza possibilità di tornare indietro], la sua carriera politica è finita. Se non si candida e lascia il campo, la sua carriera politica è finita. Se si candida, vince e invocando l’articolo 50 fa uscire il Regno Unito dall’Unione, allora sarà tutto finito – La Scozia se ne andrà, ci sarà un’insurrezione in Irlanda del Nord, una recessione, si interromperanno gli accordi commerciali e la sua carriera politica sarà finita. Boris Johnson sa già tutto questo. Quando si comporta come un tontolone biondo sta solo facendo finta.

Il commento di Teeb è stato citato dal sito Quartz, e in un articolo di John Henley, il corrispondente del Guardian da Bruxelles. Il punto più interessante che solleva Teeb è come al momento nemmeno il leader dei “Leave” sembra avere convenienza a mettere davvero in atto l’uscita dall’Unione Europea. E questo aumenta ancora di più l’incertezza alla domanda più importante di questi giorni: il Regno Unito uscirà davvero dall’Unione Europea?

In teoria non è chiaro come potrebbe rimanere. Gli elettori si sono espressi a maggioranza assoluta in un referendum non vincolante, ma dall’enorme peso politico. La leadership del partito conservatore, e quindi la guida del paese (nel Regno Unito il leader del partito di maggioranza è automaticamente anche il primo ministro), sembra destinata e passare entro il prossimo autunno a un leader favorevole al “Leave” – probabilmente lo stesso Johnson – che avrà tutto l’interesse a mantenere l’impegno per cui si è battuto durante la campagna elettorale. Eppure il clima nel paese non sembra essere il più favorevole a un gesto drastico come l’uscita dall’Unione Europea. Dopo il referendum ci sono stati pochi festeggiamenti e sembra quasi che la vittoria del “Leave” abbia sorpreso buona parte dei suoi stessi sostenitori. Con la sterlina che ha subito il peggior crollo degli ultimi trent’anni e le borse europee in subbuglio, si comincia a parlare di “Regrexit“, il rimpianto per aver scelto l’uscita dall’Unione. I siti internet si sono riempiti di testimonianze di persone che hanno votato “Leave” e si sono pentiti della loro scelta, mentre una petizione online al parlamento inglese ha sollevato molte ingiustificate speranze di un secondo referendum.

Johnson sembra aver compreso questo clima e nei giorni successivi al referendum ha ammorbidito molto la sua retorica anti Europa. Il giorno della vittoria, ha dichiarato che non c’è alcuna fretta ad invocare l’articolo 50 dei trattati europei e ha aggiunto che vede il Regno Unito sempre “più europeo”. Si tratta di un netto cambiamento per l’ex corrispondente da Bruxelles che inventava notizie satiriche sull’Unione Europea (nel 1983, ad esempio, scrisse sul Telegraph che il palazzo della Commissione Europea stava per essere demolito perché era stato ritrovato dell’amianto). Sono dichiarazioni probabilmente frutto di scelte di tattica politica. Come ha notato Teeb, Cameron lo ha messo in una difficile situazione annunciando che spetterà al prossimo primo ministro invocare il famigerato articolo 50 dei trattati europei. Una volta invocato, l’articolo 50 innesca un processo politico che non si può più arrestare. Se entro due anni il Regno Unito non riesce ad accordarsi con la Commissione Europea sulle modalità di uscita (significa riesaminare e riscrivere circa 80 mila pagine di accordi), il Regno Unito sarà espulso immediatamente dall’Unione – a meno che i 27 stati membri non votino all’unanimità per prolungare le trattative.

Quasi qualunque accordo è meglio di nessun accordo, quindi la Commissione Europea è dotata di un formidabile strumento per imporre le sue condizioni. Come ha detto al Guardian Andrew Duff, un ex parlamentare LibDem, che fu tra i redattori dell’articolo 50: «Non potevamo permettere a uno stato intenzionato ad andarsene di gestire il gioco troppo a lungo. La clausola lascia le carte migliori nelle mani di chi resta nell’Unione». È una ragione più che sufficiente per spingere Johnson a rimandare la materia il più a lungo possibile, nel tentativo di strappare un accordo preliminare vantaggioso ancora prima di iniziare le procedure di uscita. E finché non attiva l’articolo 50 è il Regno Unito ad avere le carte migliori in mano, perché con il suo voto all’interno del Consiglio Europeo può sabotare le procedure decisionali europee e fare ostruzionismo, mentre l’incertezza sull’esito del referendum danneggia non solo il Regno Unito, ma tutto il continente. I leader europei hanno escluso categoricamente la possibilità di negoziati preventivi, mentre Angela Merkel ha detto che si aspetta che l’articolo 50 verrà invocato entro l’autunno, dopo che i conservatori avranno scelto il loro leader. Ma in realtà c’è ben poco che l’Europa può fare per imporre un’accelerazione dei tempi.

Questa situazione apre diversi scenari, in nessuno dei quali sembra esserci un’uscita del Regno Unito nel breve termine. In quello più probabile, a settembre i conservatori eleggeranno un leader favorevole al “Leave” che a quel punto inizierà una serie di trattative con l’Europa per cercare di delineare gli estremi di un accordo prima di invocare l’articolo 50 – il tutto mentre alla sua destra è minacciato da leader più radicali, decisi a mettere in atto l’uscita indipendentemente dalle conseguenze, come Nigel Farage, ad esempio. È una situazione che nessuno sa quanto potrebbe durare, ma potenzialmente stiamo parlando di anni interi. Un altro scenario, è quello dell’elezione di un leader conservatore disposto ad attivare l’articolo 50 già questo autunno. La scelta porterà inevitabilmente il Regno Unito all’uscita dall’Europa, con conseguenze potenzialmente molto dannose.

Il terzo scenario è quello dell’elezione di un leader conservatore senza la volontà politica di mettere davvero in atto il Brexit (potrebbe essere lo stesso Johnson, che in questi giorni ha dimostrato di essere molto più duttile del previsto) che punterebbe ad allungare i tempi chiedendo un negoziato preventivo che l’Unione Europea non ha quasi nessun vantaggio a concedere. Sarebbe comunque molto difficile ignorare l’esito del referendum per un tempo indefinito. Per farlo serve come minimo una buona scusa. Il sito Vox ha provato a metterne insieme tre.

La prima è indire un secondo referendum. Sembra politicamente difficile da praticare a distanza così breve dal primo, ma legalmente non c’è niente che lo impedisca. La seconda è indire nuove elezioni, con la scusa che per mettere in atto l’uscita serve un parlamento con una nuova legittimità. A quel punto sarebbe possibile condurre una campagna elettorale con un programma contrario al “Leave” (i LidDem hanno già annunciato che faranno esattamente questo) e, dopo l’eventuale vittoria, dimenticare il referendum. Ma anche questa è una soluzione difficile da praticare. Gli unici che possono indire nuove elezioni sono proprio i conservatori, che al momento godono di una maggioranza che difficilmente manterranno in caso di nuove elezioni (le cose potrebbero cambiare se il partito si spaccasse). Senza elezioni anticipate, si tornerà al voto nel 2020.

Il terzo scenario sembra quello apparentemente più praticabile e passa dall’utilizzare l’opposizione della Scozia, i cui leader, come il primo ministro Nicola Sturgeon, hanno detto che useranno tutti gli strumenti a loro disposizione per evitare un’uscita dall’Unione Europea, fino ad arrivare ad invocare un secondo referendum sull’indipendenza. Senza arrivare a questi estremi, è possibile che Scozia e Irlanda del Nord blocchino Brexit con una sorta di veto parlamentare. La procedura, però, è molto dubbia e in ogni caso il governo britannico la può modificare, impedendo preventivamente qualsiasi veto. Questo però significherebbe interrompere una tradizione nella devoluzione dei poteri che dura oramai da decenni, un’intromissione difficile da tollerare per i leader locali. In Scozia, causerebbe molto probabilmente un secondo referendum sull’indipendenza, mentre in Irlanda del Nord potrebbe riaccendere gli scontri con gli indipendentisti favorevoli all’unione con la Repubblica d’Irlanda. Paventando queste complicazioni, quindi, il nuovo leader dei conservatori potrebbe utilizzare una ferma opposizione politica da parte di Scozia e Irlanda del Nord come scusa per bloccare Brexit.

Riassumendo: se ci sarà o meno il Brexit dipenderà soprattutto da chi sarà scelto a settembre come nuovo leader dei conservatori e da quanto pentita della sua scelta si dimostrerà l’opinione pubblica britannica. Nel breve termine è probabile che non succederà nulla, perché attivare le procedure di uscita, come chiede Farage e come sostenevano gli stessi leader del “Leave” prima del referendum, è una mossa che consegna tutto il potere negoziale all’Unione Europea. È possibile che il nuovo primo ministro inglese cerchi di obbligare l’Europa ad aprire delle trattative prima di invocare l’articolo 50, ma è un processo che può durare anni e dall’esito non garantito. Infine, è possibile che il referendum venga di fatto annullato, se un leader tiepido nei confronti del Brexit dovesse decidere di usare l’opposizione della Scozia per bloccare tutto il processo, o se riuscisse ad allungare i tempi fino alle prossime elezioni, nella speranza di una vittoria di una maggioranza favorevole al “Remain”. O se, ancora, tra i conservatori si aprisse una frattura così profonda da causare elezioni anticipate.