L’altra riforma della Costituzione

Dieci anni fa esatti gli elettori respinsero con un referendum la riforma approvata dal governo di Silvio Berlusconi

(ANSA -ARCHIVIO - MAURIZIO BRAMBATTI)
(ANSA -ARCHIVIO - MAURIZIO BRAMBATTI)

Il 25 e il 26 giugno del 2006, esattamente 10 anni fa, gli elettori italiani votarono per il secondo referendum costituzionale nella storia della Repubblica. Ai cittadini venne chiesto se volevano confermare la riforma della Costituzione approvata pochi mesi prima dal governo Berlusconi, per alcuni aspetti simile a quella su cui si voterà a ottobre, ma anche molto più ampia. Il referendum arrivò pochi mesi dopo le elezioni politiche del 2006, quelle in cui il centrodestra riuscì a recuperare quasi completamente il distacco che lo separava dall’Unione guidata da Romano Prodi. La riforma venne respinta dal 61 per cento degli votanti.

Cosa c’era nella riforma?
Politicamente, il punto principale della riforma era la cosiddetta “devoluzione dei poteri alle regioni”, in genere abbreviata e inglesizzata in “devolution”, un termine a volte utilizzato per indicare l’intera riforma. In particolare la riforma avrebbe trasformato l’organizzazione scolastica e sanitaria, la polizia regionale e locale, in materie di esclusiva competenza regionale. Questa parte della riforma era chiesta con grande insistenza dalla Lega Nord, il principale alleato di Berlusconi all’epoca.

Insieme alla “devolution”, la riforma prevedeva una trasformazione del Senato in maniera non troppo diversa da quella che sarà votata a ottobre: la seconda camera non avrebbe più dovuto votare la fiducia al governo e sarebbe stata eletta contestualmente ai consigli regionali, di cui sarebbe stata una sorta di rappresentanza parlamentare. Per gran parte delle leggi era previsto soltanto un passaggio alla Camera, con il Senato che avrebbe dovuto limitarsi a richiederne l’esame e suggerire modifiche (un punto molto simile alla riforma di Renzi). Il Senato avrebbe avuto maggiori competenze sulle leggi riguardo le autonomie regionali.

Infine la riforma prevedeva l’istituzione di un cosiddetto “premierato forte”, allora molto voluto da Silvio Berlusconi, che ha sempre accusato il sistema italiano di non attribuire poteri sufficienti al presidente del Consiglio. La riforma avrebbe avvicinato l’Italia a un modello presidenziale o semi-presidenziale, con un presidente del Consiglio scelto direttamente alle elezioni che si sarebbe insediato immediatamente, senza bisogno di chiedere la fiducia alla Camera. La riforma attribuiva al presidente del Consiglio il potere di sciogliere le camere e rendeva complicato sfiduciarlo: in sostanza, far cadere il governo avrebbe comportato quasi in ogni caso nuove elezioni.

Il presidente della Repubblica sarebbe stato spogliato di quasi tutti i suoi poteri e sarebbe rimasto una figura soltanto cerimoniale (ancora più di quanto non sia oggi, insomma). La riforma prevedeva anche una modifica alla composizione della Corte Costituzionale, dove i membri nominati dalla magistratura e dal presidente della Repubblica sarebbero diminuiti a favore di quelli di nomina politica.

Chi era a favore e chi era contrario?
La riforma fu approvata a maggioranza assoluta con i voti di parte del centrodestra. I centristi dell’UdC e altri parlamentari della maggioranza votarono contro e fecero campagna elettorale a favore del “no” insieme a tutto il centrosinistra. Quasi tutti gli intellettuali e i costituzionalisti che oggi sono contrari alla riforma di Renzi si schierarono per il “no”; lo fecero anche molti di quelli che invece oggi sono a favore del “sì”, come il professor Stefano Ceccanti, ex senatore del PD. Sui motivi per cui votare “no” all’epoca e “sì” il prossimo ottobre il deputato PD e sottosegretario allo sviluppo Economico Ivan Scalfarotto ha scritto poche settimane fa un articolo sul suo blog.

Come andò a finire?
La riforma fu approvata piuttosto in fretta, alla fine del 2005, quando mancavano pochi mesi alle elezioni politiche. Il governo era da tempo in difficoltà, a causa del calo dei consensi, delle ripetute sconfitte alle elezioni amministrative e della crisi dell’alleanza con l’UdC. Il referendum venne fissato per la fine del giugno dell’anno successivo, due mesi dopo le elezioni politiche. In quel periodo il centrodestra era dato molto indietro nei sondaggi, ma recuperò moltissimo negli ultimi mesi di campagna elettorale riuscendo di fatto a ottenere un pareggio con il centrosinistra. Grazie al voto degli italiani all’estero e al premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale per la Camera, il centrosinistra riuscì a ottenere una solida maggioranza alla Camera, ma al Senato poteva contare soltanto su pochi voti in più. La campagna referendaria non fu però molto combattuta: nella notte tra il 26 e il 27 giugno, alla fine dello spoglio, risultò che più del 52 per cento degli italiani era andato a votare e il 61,29 per cento di loro aveva votato “no”.